Trovo suggestivo e accattivante il titolo dell’ultima silloge di Alessandro Cannavale, ingegnere, ricercatore universitario ma soprattutto “allenatore dell’anima nella palestra della poesia”. “L’agguato della tenerezza”, edito da besamuci, raffigura in copertina il bellissimo olio su tela di un bimbo che dorme di Angela Dima: la parola “agguato” d’istinto fa pensare ad assalto, impeto, tuttavia basta immergersi tra i versi per cogliere subito una sfumatura di attesa e di veglia perché la poesia è anche culla di qualche certezza. “Tu diventi albero se ti stringo,/ io ho tutto il mondo sul petto” afferma il poeta con un accento materno e paterno al contempo e subito dopo penetra il cuore l’immagine di Alan che viaggia in una culla di braccia ma per lui non arrivano i magi. In un istante lo sguardo si allarga da una dimensione intima a una mondiale e, se c’è la notte dei randagi, se sulla terra rossa c’è sangue di altri santi, se davvero è tortuoso il compimento dei più ardui destini, non si può tacere. L’animo del poeta diventa fremente e fervente, figlio e sostenitore di una dignità da difendere; per dirla con la voce di Elisabetta Destasio Vettori nella sua lirica prefazione è una questione di restanza e di partenza: chi parte corre sulle dita dei salici ma fiorisce dentro il fiore della nostalgia. Emblematici e significativi i versi dedicati in apertura a Vito Teti, per cui “restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente”. Il buio addenta, parlano i silenzi delle case vuote e si finisce con l’”infilare le molliche nelle crepe” tra frantumi d’oblio quando il cielo si sporge ma è luce d’inverno. La sensibilità di Alessandro coglie tante sfaccettature della nostra quotidianità: come ignorare il “cristo fattosi carne per dormire sulle panchine”? E, di contro, i versi assertivi “nulla di bello sboccia/senza spendere vera fatica”: chi legge la forza che sottende i sorrisi? Il poeta ritorna a sé, ai suoi affetti e basta un uomo di pochi mesi appena a salvarlo. I ricordi bisbigliano, è il tempo dei sacrifici che rende divino il cuore, è il silenzio operoso che insegna a vivere ma è inutile ignorare la ferita perché i suoi lembi gridano nel profondo. Tanti i dettagli della terra carsica e avara: il lavoro dei precari, nel grembo di un buio ch’è gabbia stretta “la fame profonda di una patria persa di sguardi”. Oltre il grumo delle domande inevase il poeta si schiera dalla parte dei giovani, crede in una generazione che scongiura il disastro, in chi cerca la parola che sappia distendere le ali. Il mutamento parla, le stelle dipingono fiori in cielo ma “chi custodisce i fuochi/ che restano accesi/ nel Sud del disincanto”? Negli oracoli della Sibilla il bruciare del mondo a poco a poco ma alla fine chi vince? Vince chi non si arrende, chi resiste, chi non si vende e, se nel calendario degli sguardi c’è un prima e un dopo, se l’appuntamento con a vita non può essere rimandato, non si può tralasciare neppure la lista dei perdoni, lo sguardo che vede in Caino il bambino che era, i volti della memoria che pian piano perdono fattezze. Qual è allora l’insegnamento? “Un vero peccato/ è il tempo/ in amar non speso”: lasciamoci contagiare da questa poesia e indossiamola scrivendo sillabe nuove, lontane dalla distrazione, lontane dall’indifferenza e più vicine a quel magma rosso del cuore dove tutto deve entrare, la vita stessa e il suo dolore, la nostalgia e la restanza, la partenza e il ritorno. Consiglio vivamente la lettura di questi versi luminosi e “illuminanti” perché non si può rinunciare al fiato dell’anima, neppure nel vento cavo.