DI MONS. FRANCESCO SAVINO Vescovo di Cassano all’Jonio, Vicepresidente Conferenza Episcopale Italiana
Sono appena rientrato da un viaggio in Terra Santa con dentro al cuore l’urgenza di ricordare un sacerdote, la cui esemplarità ha cambiato parte della mia storia, ancor di più da quando sono vescovo di Calabria.
Don Giuseppe Puglisi, parroco di Brancaccio, ha cambiato la mia vita di uomo e di presule, imponendomi di interrogarmi, di fermarmi a pensare e a ripensare il mio stile pastorale. Sulla scia dell’esempio di Don Pino, ho sentito di scrivere vescovo di Calabria e non vescovo in Calabria perché ne abbraccio l’appartenenza, la denominazione specifica e non solo lo stare in un luogo. Credo questo faccia parte del primo grande insegnamento che il parroco di Brancaccio mi ha trasmesso: essere figli insieme, cioè “insieme a Cristo e a tutti coloro che fanno il corpo ecclesiale di Cristo”.
Negli ultimi giorni ho seguito tutte le manifestazioni d’amore e di ricordo che gli sono state dedicate in occasione del 15 settembre, giorno della sua nascita, della sua morte e della sua nuova nascita in Cristo a cui lui, servo fedele, ha dedicato la vita. Don Pino, il parroco della borgata, è oggi una sentinella di quella teologia della testimonianza cristiana che include e racchiude conversione e risurrezione.
La sua storia, la sua vita sub evangelii luce, è quella di un uomo semplice che ha fatto del silenzio la sua preghiera, e che ha riplasmato il caos sociale di Brancaccio in nuova creazione, sulla quale ha fatto aleggiare l’afflato della speranza di cieli nuovi e, soprattutto, di una terra convertita e perciò rigenerata.
Don Pino ha fatto del mistero di Cristo un fenomeno d’amore, qualcosa di visibile e tangibile che, radicato nella trascendenza di un timbro spirituale semplice, riecheggia ancora oggi, nelle strade e nelle viuzze del quartiere di Palermo in cui ha vissuto il suo servizio pastorale.
Don Pino non cercava la santità ma la sanità, quella derivata dal sanus, dal sano, dall’essere in buona salute. E la ricercava a Brancaccio che, nel suo sogno e nel suo agire, è stato sempre il paradigma del cambiamento, la terra dimenticata ma raggiunta e trasformata. È proprio qui che ha sparso i suoi semi di Vangelo, e ne ha fatto corpo e cura, spaventato solo dal silenzio degli onesti.
Me lo aspettavo
Don Pino si aspettava di essere ucciso per la sua fedeltà a Cristo, per la sua vita interamente vocata alla pratica della giustizia e della giustezza, martire anche in vita come Gesù, vittima di una drammatica ed ingiusta concretizzazione del male: la mafia. L’animus di don Pino traduceva in azione gli insegnamenti della Parola, perché aveva scelto, in primis, di essere educatore, di dare credito a tutte quelle forme di approfondimento e di protesta contro realtà deviate e devianti.
“Il nostro agire diventi protesta contro realtà deviate e devianti”
“Il nostro agire diventi protesta”: nel fortino della mafia circondato da barriere di silenzio, da cancelli di dimenticanza, don Puglisi ha acceso una luce di speranza seminando in un territorio per molti sassoso e arido, subendo una morte violenta. Una morte che don Pino s’aspettava non per un insano gusto del macabro ma per la forza del cambiamento che era riuscito a infondere nelle coscienze. Lo ha fatto con l’arma più potente di tutte, più potente della mafia stessa: il Vangelo.
Nei sogni del Beato don Puglisi, il Vangelo era lo strumento necessario e sufficiente a sradicare i vivai del malaffare, insieme alla scuola, alla cultura, all’affiliazione al bello ed al buono di un gustoso riscatto. La sua morte, nel giorno del suo compleanno, ha significato un nascere di nuovo, un nascere ancora, perché il martire, che non vuole la morte, sceglie la vita anche a costo di perderla.
Il parroco di Brancaccio ha scelto l’eco del dirsi di Dio e lo ha declinato nell’impegno pastorale ed umano di un pallone calciato nella polvere, di una scuola costruita sulle macerie di un’umanità che iniziava ad affascinarsi alle sue parole e a cambiare il senso sociale in senso umano, di carità e di aiuto verso l’alt(r)o.
Cosa ci insegna oggi, il beato Puglisi, a 30 anni dalla sua morte?
Ci insegna che l’amore per Dio libera i nostri carismi e purifica i nostri progetti, rendendoli disegno di qualcosa di unico ed irripetibile per cui si è disposti, con non troppa sorpresa, a rendervi grazie con la propria vita. Ci insegna che la cultura è un’arma potente, la più potente, quella che fa crescere i fiori in mezzo al cemento, come l’opera “Padre Nostro”, sognata e voluta da don Pino come segno di una Chiesa in uscita e proiettata dentro le periferie umane ed esistenziali.
La sua morte non è stata un sacrificio ma un omaggio all’umanità vicina e lontana da Cristo, non un fatto di cronaca ma una profezia che oggi ci chiede di riadottare il suo metodo pastorale: rivendicare il suo amore per i più piccoli ed il suo coraggio consapevole nella lotta alle ingiustizie. Il suo ricordo resta un apostolato di promozione sociale ma, ancor prima, di amore verso la gente, l’undicesimo comandamento da osservare: l’essere figli insieme, non da soli, perché siamo tutti chiamati ad essere figli e tutti mandati ad essere fratelli.
A don Pino Puglisi, a 30 anni dalla sua nuova nascita, la promessa di un impegno concreto ad essere figlio, ad essere fratello.