Chi non ricorda il “natío borgo selvaggio” di leopardiana memoria? La celebre definizione, che il giovane Giacomo diede del suo paese ne ‘Le ricordanze’ (1829), è stampata nella memoria di intere generazioni, che, quasi meccanicamente, si sentono indotte ad utilizzarla quando parlano delle proprie origini o fanno solo una citazione. Eppure essa è responsabile di qualche incomprensione lessicale oggi piuttosto diffusa. Cominciamo col dire che il termine ‘borgo’, secondo il Vocabolario della Crusca (quarta edizione del 1738, che Giacomo ben conosceva), significa: “strada o raccolta di più case senza recinto di mura e, propriamente, gli accrescimenti delle case fuori delle terre murate (ossia le città dotate di mura); sinonimi: suburbius, vicus, pagus”. Per il Tommaseo, poi, il borgo come sopra definito “può essere vicino alla città o nella città stessa” (1838). Pertanto, il vocabolo non si adattava certamente a Recanati, che, quando Leopardi la definiva ‘borgo’ (1829), aveva le mura (ancor oggi visibili) e ben oltre 7000 abitanti (fonte: Monaldo Leopardi, Storia di Recanati, 1828, pag. 59) e quindi ‘borgo’, stricto sensu, non era. Anzi, era una “ricca città episcopale, ben fabbricata, le sue strade sono larghe ed ha de’ begli edifizi; è capoluogo di cantone” (L. R. Formiggini, Dizionario geografico, topografico, storico d’Italia, s. v., 1814), piuttosto conosciuta nello Stato della Chiesa. Pertanto, il vocabolo ‘borgo’, considerati il dato demografico inconfutabile e il contesto polemico della poesia in cui il termine è presente, è adoperato da Leopardi con un valore chiaramente negativo per esprimere, al tempo stesso, risentimento e sarcasmo, provocati dall’atteggiamento dei concittadini, che il poeta sentiva ostile nei suoi confronti. Sensazioni causate, quindi, da una condizione di vita per lui insopportabile ed accentuate dall’uso dell’aggettivo ‘selvaggio’, il quale, leggiamo sempre nel Vocabolario della Crusca, anche all’epoca significava: “di persona che o è abituata a vivere lontana dalla città o da centri abitati e civili; zotico, rozzo, villereccio, non urbano”. Attenzione, però: aver accostato ‘selvaggio’ a ‘borgo’ nasconde un’operazione di raffinata tecnica comunicativa, tipica della poesia leopardiana, come testimoniato da altre espressioni icastiche da lui coniate (“sempre caro mi fu”, “che fai tu in ciel, silenzïosa luna”, “le sudate carte” etc.) e finalizzata a trasmettere un insieme di sensazioni al lettore. Quali? Proviamo ad individuarle: oltre a risentimento e sarcasmo, sono evidenti pure disprezzo, disgusto, incomprensione, ma anche senso di superiorità, introversione, egoismo, misantropia. Tutte condite nella consapevolezza di appartenere per nascita a quel paese (‘natio borgo’), che accentua la stizza e l’acredine. Orbene, così caricato dal Leopardi, il vocabolo ‘borgo’ ritorna nel linguaggio comune per rimanervi in pianta stabile fino ai nostri giorni, malgrado subisca la concorrenza di termini più comuni come ‘villaggio’ e ‘paese’. Ritorna, però, arricchito di una nota di eleganza letteraria e di dolcezza bucolica per indicare un ‘luogo dell’anima’, come si usa dire oggi: una realtà idilliaca rimpianta e sognata, che evoca un misto di nostalgia e dolcezza, sull’onda del ricordo. Cosa che un ‘borgo’ non è. Perché spesso risulta deprimente ed insopportabile. Tuttavia, segnaliamo che, quando oggi si usa il vocabolo ‘borgo’ per indicare un centro urbano di una certa consistenza, si commette un errore lessicale: nel numero di settembre di una prestigiosa rivista diventano borghi anche Vitorchiano (5000 abitanti), Finale Ligure (11200 abitanti) e Mendrisio (15000 abitanti!). Fin qui, comunque, è questione di significati. Ma, a ben riflettere, l’errore lessicale di cui sopra genera un atteggiamento penalizzante diffuso: infatti, nelle sempre più frequenti ricognizioni dei media a scopo turistico vengono dimenticati i veri borghi d’Italia, che rimangono in un anonimato penalizzante e non godono di alcun passaggio né televisivo né cartaceo, dovendo accontentarsi di qualche inserzione pubblicitaria a titolo gratuito sui social. Si tratta di migliaia di realtà, che pure hanno una storia ma non vantano una chiesa o una statua lignea del primi del Seicento, un tratto di mura medievali o un edificio settecentesco, i resti di un insediamento tardo romano o un piccolo teatro dell’Ottocento. Proprio queste realtà sconosciute dovrebbero essere riscoperte e valorizzate anche negli aspetti più comuni, spesso ignorati dalla cultura ufficiale. Pensiamo all’architettura rurale ed ai suoi arredi, alle coltivazioni tipiche del territorio, alla cultura culinaria e alle sue ricette, espressioni concrete di una civiltà contadina, quasi sempre oggi celebrata come romanticheria e non come realtà concreta fatta di sacrifici. Insomma, sarebbe opportuno andare al di là dei Sassi di Matera o del Palio delle contrade per scoprire, ad esempio, le originali soluzioni abitative di uno sconosciuto borgo montano, capire le feste e le tradizioni di uno di confine, visitare le tipiche cisterne di un paesino insistente in un territorio arido, ammirare le costruzioni in pietra di un abitato fluviale. Cosi si garantirebbe visibilità ma, soprattutto, si allargherebbe l’orizzonte culturale di tutti, spesso concentrato su parametri valutativi fin troppo scontati. E si andrebbe ben al di là della sprezzante definizione di Leopardi. Che aveva la sua ragione nell’intimo dell’individuo ma non nella vita di una comunità, sia pure minuscola.