«La soluzione dei problemi del Pd, […] non consiste nel portare a Roma gli amministratori, cosa che pure avrebbe una sua utilità, ma nel portare nei Comuni un po’ di Roma. Ovvero dare agibilità politica, decisionale, di rappresentanza ai circoli, non come bacino elettorale e di manovalanza più o meno volontaria, ma come luoghi di confronto, elaborazione, discussione e proposta programmatica ed elettorale. Il che significherebbe agganciare i candidati ai territori, e prima ancora dotare il Paese di una legge elettorale per la quale si viene eletti con le preferenze e su collegi più sostenibili, con conseguente ricalcolo del numero dei Parlamentari necessari a coprire i territori».
Scriveva così, ad ottobre 2022, il segretario della sezione bitontina del Partito Democratico Francesco Brandi, in una nota inviata alla stampa locale per dire la sua sul risultato elettorale delle politiche che si erano tenute una settimana prima e che hanno portato alla formazione dell’attuale governo di destra.
Un’analisi che citava un tema su cui da anni la politica discute abbastanza infruttuosamente: quello della legge elettorale.
Vari sono stati i tentativi degli ultimi anni volti a dare alla politica nazionale un nuovo sistema per l’elezione dei suoi rappresentanti. Dal 2000 in poi in Italia si sono tenute cinque elezioni con tre leggi elettorali differenti. Quella del 2001 fu, infatti, l’ultima elezione in cui si votò con il Mattarellum (o legge Mattarella, dal nome del suo principale relatore nonché attuale presidente della Repubblica), il sistema che, nel 1993, era subentrato al posto del proporzionale, che aveva dominato la Prima Repubblica dal dopoguerra in poi.
Il sistema Mattarella stabiliva che il 75% dei seggi di Senato e Camera fosse assegnato con sistema maggioritario a turno unico in collegi uninominali, mentre il restante 25% tramite proporzionale: si sottraeva dal conteggio dei voti di una lista nella parte proporzionale i voti dei candidati eletti nei collegi uninominali (cosiddetto “scorporo”). L’assegnazione dei seggi al Senato era regionale, mentre alla Camera nazionale con uno sbarramento al 4%.
Era un sistema fondato sulla volontà di spingere il sistema politico verso il bipolarismo, costringendo i partiti a formare coalizioni abbastanza forti da eleggere i propri candidati nei collegi uninominali. E le tre legislature elette con il Mattarellum, effettivamente, registrarono un numero inferiore di gruppi parlamentari rispetto alle precedenti.
Nel 2005, il sistema cedette il posto alla legge Calderoli, meglio nota come Porcellum, dal soprannome che le diede il politologo Giovanni Sartori dopo che lo stesso firmatario l’aveva definita una “porcata”. Approvata con i voti del centrodestra, introdusse un proporzionale con premio di maggioranza, senza possibilità di esprimere preferenze. Una mancanza destinata ad accendere il dibattito politico degli anni successivi.
Il Porcellum, alla Camera, assegnava automaticamente, alla coalizione con più voti su base nazionale, 340 seggi su 600, mentre al Senato in ogni regione assegnava il 55% dei seggi alla lista più suffragata. Un meccanismo che causava un problema non di poco conto. Se alla Camera la maggioranza era certa, al Senato dipendeva dagli schieramenti vincenti nelle singole regioni. Motivo per cui il centrosinistra non riuscì ad ottenere la maggioranza a Palazzo Madama nel 2013, arrestandosi a 123 senatori su 315.
Nel dicembre 2013, la Corte Costituzionale dichiarò incostituzionale il meccanismo del premio di maggioranza, in quanto indipendente dal raggiungimento di una soglia minima. Giunse quindi il momento di cambiarla. Nel 2015 ci provò l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi con l’Italicum, un sistema proporzionale con sbarramento al 3% e premio di maggioranza di 340 seggi alla lista in grado di raggiungere il 40% dei suffragi. Nel caso in cui nessuna forza politica avesse raggiunto questa soglia, si sarebbe stato un ballottaggio tra le due più votate. L’Italicum riguardava la Camera, perchè il Senato, secondo il progetto dell’ex sindaco di Firenze, non sarebbe più stato eletto direttamente. Il progetto, però, si infranse con il fallimento del referendum costituzionale di quell’anno.
Per avere una nuova legge elettorale si dovette aspettare ancora un anno. A fine 2017 il Parlamento approvò, con i consensi di centrosinistra e centrodestra, la legge Rosato, altrimenti detto Rosatellum e attualmente ancora in vigore. Una legge che stabilisce che un terzo del Parlamento sia eletto con sistema maggioritario e due terzi con sistema proporzionale. Lo sbarramento è fissato al 3% su base nazionale. Alle liste è data la facoltà di coalizzarsi tra loro: chi ottiene meno del 3%, nella parte proporzionale non elegge rappresentanti. Ma i suoi voti si sommano comunque alle altre liste della coalizione che hanno superato il 3%. Sotto l’1%, invece, i voti sono persi.
Torniamo al tema delle preferenze, su cui continua il dibattito, perché, nonostante i frequenti cambi di legge elettorale avvenuti negli ultimi anni, ancora, a livello nazionale, non è possibile indicare sulla scheda elettorale il nome del proprio candidato preferito sulla scheda elettorale. E il risultato lo abbiamo visto alle politiche del 2022, in cui abbiamo visto candidati cittadini messi in posizioni che rendevano materialmente impossibile l’elezione e che avevano il solo scopo di sfruttare il bacino elettorale del politico locale, per favorire l’elezione del prescelto dal leader o dalla segreteria nazionale del partito e messo come primo nome in una lista bloccata. Ed è quello che è successo nel centrodestra nel collegio di Bitonto.
Motivazione, questa, che spinge in molti a chiedere da anni il ritorno alle preferenze, che, nell’opinione comune, hanno il merito di incrementare il potere decisionale dei cittadini e di permettere agli elettori di scegliere il candidato che meglio rappresenta un territorio, una comunità.
Ma, in sé, la preferenza comporta anche notevoli rischi da non sottovalutare. Non solo la maggiore personalizzazione della politica locale, fenomeno che tanto osserviamo anche nelle competizioni elettorali cittadine e regionali, ma anche il maggiore rischio di corruzione e di voto di scambio.
C’è chi individua, nelle primarie, uno stromento per ovviare a quest’impasse. Ma, oltre a non eliminare i rischi citati, le primarie stimolano un’estrema personalizzazione della politica e della competizione interna ai partiti, indebolendo ulteriormente questi ultimi, che vengono così privati del potere decisionale sulla scelta del candidato.