«Il Paese ha consapevolmente scelto di andare avanti sulla strada del populismo».
Commentò così Carlo Calenda, a settembre 2022, in occasione della vittoria del centrodestra guidato da Giorgia Meloni, parlando del terzo polo come dell’unica alternativa non populista.
La parola “populismo” domina da anni, decenni, ormai, il dibattito politico, nonostante non sia affatto un fenomeno nuovo, ma sia molto ricorrente nella storia italiana e internazionale. È ricorrente soprattutto negli ultimi 30 anni, con la crisi delle democrazie occidentali e l’avvento di quella che Colin Crouch chiama “post-democrazia”. Usata talmente tanto che rischia talvolta di divenire una categoria dai contorni totalmente sfumati e un concetto abusato e inflazionato, finendo con il trasformarsi in un contenitore vuoto, un’etichetta con cui un’élite identifica qualsiasi politica non gradita, come sottolineò lo storico Francis Fukuyama.
Ma, per quanto fumosa possa essere la sua definizione e per quanto i populisti cerchino di negare sempre la propria appartenenza a tale categoria, si tratta di un fenomeno reale. Talmente reale che affligge, spesso, anche chi si dichiara antipopulista. Torneremo a breve su questo.
Ma cosa è il populismo?
In termini generali, con populismo si intende il continuo appellarsi al popolo contro un sistema consolidato di potere. Un popolo, però, inteso come gruppo omogeneo, senza divisioni o interessi contrastanti al suo interno, senza differenze di valori. Una massa uniforme posta in una dichiarata opposizione alle divisioni rappresentate dal regime parlamentare, giudicate artificiose. Un’esaltazione della sovranità popolare che si contrappone alla forma della democrazia parlamentare rappresentativa di tipo liberale. Secondo i populisti, il popolo è fonte diretta di legittimazione contro una vera o fantomatica “casta”, vista come lontana o disinteressata alle istanze della gente comune, con il fine di proteggere solamente privilegi dettati da una posizione di comando.
Un fenomeno esistente da sempre e che si è naturalmente evoluto con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione, che hanno permesso l’eliminazione sempre maggiore di ogni intermediazione, permettendo ai leader populisti di instaurare un rapporto via via più diretto con una base ormai slegata da legami di tipo ideologico e attratta dal carisma dei leader più comunicativi. Soprattutto con l’avvento dei social network, che consentono di sfruttare la sempre più diffusa convinzione degli utenti di poter essere una sorta di “opinion leader”.
Ma torniamo al concetto, accennato in precedenza, del “populismo degli antipopulisti”, per parafrasare la famosa definizione di Pier Paolo Pasolini del “fascismo degli antifascisti”. Si tratta di una nuova declinazione dell’antico fenomeno del populismo, che però affligge coloro che si dichiarano antipopulisti. Un antipopulismo populista, appunto, che però funziona in modo simile a quello classico: una divisione manichea che pone da un lato i nemici delle istituzioni, gli incompetenti, i complottisti e dall’altro lato chi ha competenze e rispetto per le istituzioni. Un populismo di chi, ritenendosi “competente”, tende a bollare qualsiasi critica come populista, irridendola, denigrandola, in nome di una vaga idea di complessità. Da una parte i seri, dall’altra i populisti. Da una parte i competenti, i responsabili, dall’altra gli incompetenti, gli irresponsabili.
Un fenomeno che abbiamo visto, negli ultimi anni, con i governi tecnici di Draghi e Monti, con Renzi, Conte, Calenda. Lo abbiamo visto anche con le forze politiche che fanno leva sul decisionismo dei sindaci, come Italia in Comune, che, anche a Bitonto, si pose come alternativa ai populismi di Lega e M5s.
Abbiamo già parlato degli altri. Soffermiamoci, oggi, su Carlo Calenda, leader di Azione, oggi, probabilmente l’esempio più evidente di questo tipo di populismo. Già dal suo dirsi “né destra, né sinistra” si può notare un elemento in comune con quel populismo che si vorrebbe contrastare. Quello di mascherare una presunta obiettività negando ogni obbedienza partitica e ideologica e bollando queste ultime come superflue e inutili etichette. Un tipico tratto populistico che lo rende simile ai tanto odiati Cinquestelle, ad esempio.
“Io risolvo problemi” disse in un’intervista ad agosto 2022, richiamandosi ad una citazione dal film “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino, in cui un personaggio di nome Mr Wolf (Harvey Keitel) era chiamato a risolvere, appunto, un problema (fortunatamente, nel caso di Calenda, il problema da risolvere non era la cancellazione delle tracce di un omicidio).
Un’affermazione che, ancora una volta, rende la sua narrazione fortemente simile a quella dei populisti più classici come Grillo, Salvini, Meloni. La sua è, infatti, una retorica basata sull’idea del leader forte in grado di risolvere problemi della gente comune. Un populismo d’élite, un’antipolitica dell’èlite che, però, riprende la narrazione grillina traducendola in uno stile manageriale simile a quello di Berlusconi, di Renzi.
Oltre a ciò, Calenda riprende una concezione che si è affermata negli ultimi decenni e che abbiamo già visto a Bitonto a proposito del fenomeno dei comitati di quartiere: quella della politica intesa come mero provider di servizi utili a risolvere problemi, un dispensatore di protezione, un’entità altra, staccata dalla società. Abbandonata la tradizionale funzione educativa dei partiti di massa, caduti gli orizzonti valoriali e venute meno ideologie, identità politiche, partecipazione delle masse in partiti e sindacati, per l’opinione pubblica lo Stato è, infatti, già dagli anni ’80, un mero distributore di servizi. Un’entità che, piuttosto che impegnarsi su obiettivi di lungo termine, deve solo ascoltare le istanze del popolo, non filtrate attraverso istituti di mediazione, e proteggerlo come se fosse una madre (di deriva “materna” dello Stato parlò il politologo francese Michel Schneider in “Big Mother, psychopathologie de la France politique”).
Ma il fenomeno del populismo antipopulista travalica i confini della politica, coinvolgendo anche altri settori, come ad esempio il mondo scientifico i cui esponenti, complice un uso scorretto ed eccessivo dei social network e della visibilità che essi assicurano, si sono spesso reinventati guru della scienza, arroccandosi su posizioni chiuse ad ogni critica. Sfociando, quindi, in comportamenti talvolta antiscientifici atti a bollare qualsivoglia osservazione anche parzialmente divergente come “fake news”, complottismo. Lo abbiamo visto durante gli anni della pandemia da covid 19 e, prima ancora in Puglia, con il fenomeno della xylella. Ma di questo ne parleremo in modo approfondito tra qualche appuntamento, quando affronteremo, appunto, il fenomeno del complottismo che, in sostanza, non è che un’altra espressione classica del fenomeno del populismo.