Nel Lapidario Romanico della Cattedrale di Bitonto, curato con dedizione e passione da don Giuseppe Ricchiuto, sono conservati due architravi che riportano la stessa iscrizione ma in caratteri diversi: quella più vecchia è in eleganti lettere gotiche e costituisce un prezioso reperto del vecchio ciborio, la struttura che copriva l’altare maggiore nel XIII secolo.
L’epigrafe recita:
Presule Dominico fuit haec formata jubente
ciburii norma clero populoque petente
ad laudem Christi me struxit cura magistri
munere permulto fecit hanc Gualterius ultro
de fogia duxit ortum qui sic bene sculpsit
annis millenis transactis bisque vicenis
insuper addendis hiis annis plusque ducentis
cum grandi cura fuit haec formata figura.
ovvero
Per volontà del vescovo Domenico e su richiesta di clero e popolo
quest’opera fu realizzata a forma di ciborio.
A lode di Cristo mi ha sistemato la precisione del maestro,
con notevole impegno inoltre l’ha costruita Gualterio,
nacque a Foggia chi (mi) ha così bene scolpito.
Trascorsi ormai mille e per due volte venti anni
per di più da aggiungere a questi anni ben altri duecento
fu realizzata questa struttura con notevole precisione.
Apprendiamo così che il vescovo Domenico, di cui sappiamo ben poco, fece costruire il ciborio nell’anno 1240, e che a realizzarlo fu un tale Gualterio “con notevole impegno”.
Ma analizzando il testo meglio articolato dell’altra iscrizione, quella in caratteri classici conservata nel Lapidario suddetto e voluta, a quanto pare, dal vescovo Gatta, si scopre che l’epigrafe è composta da versi esametri ben curati e scritti in un latino molto corretto, privo di errori ed elegante per talune espressioni raffinate adoperate (permulto munere, duxit ortum, bisque vicenis).
Inoltre, in essa spicca un nome proprio, Gualterius, che una sbrigativa interpretazione del testo ha identificato come un munifico finanziatore della sacra struttura, perché ha tradotto l’espressione munere permulto con un valore economico (versando molto denaro) quando, invece, essa significa “con molto impegno (di lavoro)”.
Ne deduciamo, così, che il citato Gualterius ha realizzato il ciborio, costruendolo (fecit) secondo le indicazioni (forma) fornite dal magister ricordato nel verso precedente mentre un anonimo artigiano della pietra (un lapicida) venuto da Foggia lo ha scolpito: “de fogia duxit ortum qui sic bene sculpsit”, cioè: “trasse origine da Foggia chi (la) scolpì così bene”, verso in cui è evidente che il pronome relativo (qui) non si riferisce certo a Gualterius.
Da notare che il nome proprio Gualterio o Walter, di origine germanica, ribadisce la presenza continuativa dei Normanni a Bitonto la cui importanza in ambito ecclesiastico è attestata da iscrizioni (si leggano quelle incise sulla parete esterna dell’abside della cattedrale) e da altre testimonianze scritte, conservate nel Codice Diplomatico Barese.
D’altronde, è molto significativo che nel testo tre verbi richiamino in successione le distinte fasi di costruzione di un “monumento”, inteso nella sua valenza etimologica di “opera destinata ad essere ricordata”: struxit, fecit, sculpsit, ai quali si aggiunge, in premessa, formare. Quest’ultimo indica la fase progettuale (“come lo facciamo?” “A forma di ciborio”) mentre lo struhere si riferisce alla predisposizione del materiale in situ, il facere alla costruzione vera e propria e lo sculpere alla rifinitura artistica.
I quattro verbi così richiamano altrettanti soggetti diversi: il committente (il vescovo, presul), il progettista (magister), l’ esecutore o direttore dei lavori (Gualterius), le maestranze specializzate (l’anonimo lapicida foggiano). L’iscrizione del ciborio, quindi, attesta l’uso epigrafico di un formulario tecnico ben preciso a Bitonto ed altrove: infatti, due dei verbi qui ricordati ricorrono anche nella cosiddetta “lastra del pollice” in cui un anonimo “presbiter strucxit (sic)”, un lavorante altrettanto anonimo “pollice sculpxit (sic)” e qualcun altro “composuit” (sistemò).
Non sfugga, poi, che il verbo facere accomuna il “Nicolaus, magister et sacerdos”, ricordato dall’iscrizione sottostante all’ambone, a Gualterius ed alla docta manus citata nell’altra scritta sempre presente sull’ambone (docta manus me fecit ad (h)oc ut lectio vitae hic recitata ferat fructus), in cui ricorre l’espediente, molto comune nelle epigrafi, di far parlare il monumento in prima persona (mi ha costruito).
Il verbo formare, inoltre, si legge in un’altra scritta più breve ma comunque significativa riportata su un capitello appartenente allo stesso ciborio e sempre conservato nel suddetto Lapidario:
doctoris stvdivm laudes pensando …
vhas tricatas in me studuit formare figuras
ovvero
L’impegno del maestro nell’eguagliare le lodi …
si è sforzato di dare forma in me a queste immagini complesse.
Queste iscrizioni possono contribuire ad una probabile ricostruzione del corredo epigrafico del presbiterio, cioè della zona più sacra di una cattedrale romanica, e ricordano coloro che hanno lavorato alla realizzazione del complesso artistico.
Esse uniscono, insomma, il sacro col profano nella memoria collettiva religiosa.