«Il nostro antifascismo, prima che un’ideologia, è un istinto», scriveva Piero Gobetti in un memorabile capitolo del suo saggio politico La Rivoluzione liberale.
La ricorrenza del 25 Aprile, Festa della Liberazione, si accompagna sempre ad infinite polemiche: da giornata di condivisione è divenuta sempre più giornata di divisione, un infinito dopoguerra di bilanci e regolamenti di conti che perdura sino ai giorni nostri.
Ma su cosa ci si divide oggi? Dirsi fascisti o antifascisti rispetto a cosa? Senza alcun confronto con le emergenze odierne, la dialettica delle opinioni sarebbe solo retorico esercizio di stile. Non si può fare la storia ignorando la cronaca. Il 25 Aprile, ammantato dal tiepido tono della laica celebrazione, finisce così per essere l’occasione solenne per una rassegna delle truppe, uno sterile contarsi di qua e di là.
Si dice, con un neologismo, che la data sia “divisiva”. E allora? Dividersi su principi e diritti di libertà darebbe all’azione dei partiti e al sentimento popolare quel carattere competitivo di lotta pedagogica, che le reiterate stagioni dei compromessi storici e degli “inciuci” di prima e seconda repubblica hanno svilito, risolvendolo nella paternalistica ineluttabilità di una spesa pubblica fuori controllo. Ecco, al nostro ex-Belpaese mancano lo spirito e la posa del lottatore ideale, strenuo difensore dell’interesse nazionale. Ma questo spirito di sacrificio, questo anelito di libertà individuale è sempre stata una preoccupazione minore rispetto all’unità e alla ragion di Stato e ha trasformato l’Italia, nel tempo, in una consorteria nutrita dalle leggi “bipartisan” della spesa pubblica in deficit.
Nel frattempo, tra una polemica e l’altra su fascismo-antifascismo, il debito è salito alla spaventevole cifra di 2772 miliardi di euro (il secondo più alto in Europa dopo quello della Grecia), pari al 144% di ciò che si produce. Sono livelli, questi, che rendono meno libera e meno competitiva una nazione ad un qualunque tavolo di negoziati nel mondo o nel consesso europeo.
Ecco allora, rispetto al debito, rispetto al Pil che arranca, all’incapacità cronica di riformare le istituzioni economiche, del lavoro e della scuola, rispetto alla paurosa riduzione del potere d’acquisto di operai e impiegati, siamo di destra o di sinistra? Conservatori o progressisti? Fascisti o antifascisti? Non sarebbe, semmai, questa delle riforme economiche la coscienza di una battaglia nuova, l’altra Liberazione, per la quale ci si possa sentire europei con un minimo orgoglio di italiani? E non sarebbe anche un modo più onesto di cominciare a scrivere, oggi, una Storia nuova, non avulsa da principi, valori e responsabilità di elettori ed eletti?
All’antifascismo italiano è sempre mancata un’educazione liberale, un istinto individualistico, quello spirito di sacrificio che è di una democrazia moderna attenta alle proprie battaglie e gelosa delle sue conquiste.
Ma in Italia questo non è: nessuna competizione vera si è mai stagliata all’orizzonte della prassi politica, i partiti governano insieme, scambiandosi cortesie istituzionali e dividendosi il sottobosco delle poltrone che contano: governano così, a livello centrale e locale sotto l’egida della spesa pubblica, che crea sempre nuove irresponsabilità politiche.
In fondo, Giorgia Meloni non fa che accettare, coi suoi ministri, l’atlantismo e l’europeismo di Draghi, esattamente come i partiti o i movimenti dei governi precedenti, i cui peana rivoluzionari preludevano scioccamente a ben altro.
Dov’è, dunque, la lotta ideale, questa sconosciuta? Ci si rassegni a vedere i veri problemi dell’Italia odierna, espunti da ogni cerimoniale, relegati nella triste penombra di una commemorazione che i più, oggi, non capiscono non avendo mai avuto fede per ideali d’inflessibilità politica.
Un altro 25 Aprile sarà archiviato con l’ennesima parola, tollerante e paterna, del Presidente Mattarella. Una parola che vorrebbe liberarsi dagli ormeggi della prammatica e che forse potrebbe essere più coraggiosa e rotonda: moralmente e politicamente il Presidente della Repubblica rappresenta lo spirito di unità e di armonia della nazione, dunque ha il dovere morale di dire due cose chiare sulla Liberazione, senza reticenze e senza ambàgi. Glielo chiedono i giovani italiani, stanchi delle tiritere ideologiche e smaniosi di entrare con dignità in quella grande società aperta che sarà il mondo che avrà vinto l’ultima tirannide.