«L’ultimo segretario che fu in grado di dare al partito democratico una sferzata identitaria fu Matteo Renzi. Una svolta da me non condivisa, sbagliata, in senso liberale e non laburista, ecologista e per i diritti civili. Ma, pur sempre, un ultimo tentativo di ribadire un’identità che, dopo, non è più esistita, perché si è solo pensato di cambiare i segretari senza discutere sulle scelte da intraprendere».
Sono, queste, parole estratte da un’intervista rilasciata a gennaio 2022 dall’attuale segretario del circolo locale del Partito Democratico Francesco Brandi, mentre nel partito ci si preparava a scegliere il segretario nazionale.
Presidente della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009 e sindaco dell’omonima città dal 2009 al 2014, Matteo Renzi divenne segretario del Partito Democratico nel dicembre 2013, dopo aver vinto le primarie dello stesso anno contro Gianni Cuperlo e Giuseppe Civati. Non furono le prime elezioni primarie nazionali a cui Renzi partecipò. L’anno precedente si candidò anche alle primarie del centrosinistra per la scelta del leader che avrebbe guidato la coalizione alle successive politiche. Ma, in quell’occasione, fu sconfitto da Pierluigi Bersani. La coalizione, denominata “Italia Bene Comune”, fu la più votata, nonostante una netta vittoria mancò e il governo che ne scaturì fu profondamente instabile. A guidare l’esecutivo fu il vicesegretario del Pd Enrico Letta, mentre la carica di vicesegretario fu affidata al segretario politico del Pdl Angelino Alfano. Ma Letta durò ben poco. Un anno. Soprattutto a causa di contrasti interni al Pd, con il nuovo segretario Matteo Renzi. Che, nel febbraio del 2014, andò al suo posto e diede vita, insieme a Berlusconi, al cosiddetto “patto del Nazareno”, volto ad avviare una serie di riforme istituzionali, fra cui una nuova modifica del titolo V della parte II della Costituzione, con la trasformazione del Senato in una Camera delle autonomie e una nuova legge elettorale. Un patto che durò un anno, fino a quando, nel febbraio 2015, con l’elezione di Mattarella a Capo dello Stato, Berlusconi dichiarò terminata la cooperazione con Renzi. Non senza contrasti e fratture nel centrodestra.
Ma torniamo a Renzi che iniziò a farsi conoscere in tutta Italia quando, il 29 agosto 2010, lanciò una campagna volta alla «rottamazione senza incentivi» dei dirigenti di lungo corso del Partito Democratico, per favorire un ricambio generazionale in un partito che, a suo dire, non aveva più alcun appeal. E per sconfiggere finalmente Berlusconi, come dichiarò ad un’intervista su La Repubblica: «Non è mica solo una questione di ricambio generazionale. Se vogliamo sbarazzarci di nonno Silvio, io così lo chiamo e non caimano, dobbiamo liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani. Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi. Il Nuovo Ulivo fa sbadigliare. È ora di rottamare i nostri dirigenti».
Per Renzi, dunque, il Pd sarebbe dovuto ripartire da una nuova classe dirigente di quarantenni. E da «gente che viene dal territorio. Da scegliere con le primarie. Ovunque».
«Penso sia la combinazione giusta per ascoltare e raccogliere le indicazioni del nostro popolo. Più che cambiare il Pd, però, io direi proprio: azzerare» concluse.
Concetti ribaditi nel novembre successivo, quando, insieme a Giuseppe Civati, organizzò un’assemblea alla stazione Leopolda di Firenze, dal titolo “Prossima Fermata Italia”, che si sarebbe trasformata in appuntamento annuale. Da lì, dalla Leopolda e da quei 6800 partecipanti, nacque un manifesto denominato Carta di Firenze. Fu l’inizio della sua scalata politica prima verso la guida del Pd e verso la guida dell’esecutivo. A 39 anni, fu il più giovane capo del governo della storia d’Italia. Lo diventò dopo le dimissioni rassegnate da Enrico Letta.
Renzi impresse a quel partito frutto della fusione tra gli eredi della tradizione comunista e quelli del cattolicesimo di sinistra, una svolta liberista ispirata alle politiche di Tony Blair, alle proposte di Pietro Ichino, come specificò in un’altra intervista al Foglio: «Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore».
E le tracce del “liberismo di sinistra” di Renzi si trovano anche nelle sue politiche, a partire dal Jobs Act, riforma del lavoro volta a ridurre la disoccupazione attraverso una maggiore flessibilità che si tradusse in riduzione dell’ambito di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, in maggiore libertà di licenziamento da parte dei datori e nella rimodulazione dei contratti di lavoro dipendente. Una riforma che, tuttavia, a detta di gran parte della sinistra, aumentò solamente contratti precari più favorevoli per i datori che per i lavoratori.
Aspetti, questi, che lo portarono anche a scontrarsi con i sindacati, storicamente alleati della sinistra, ma oggetto di frequenti attacchi: «Invidio molto quelli che passano il tempo a organizzare gli scioperi. Mi riferisco ai sindacalisti, non ai lavoratori. Se il loro obiettivo è organizzare gli scioperi fanno benissimo a farli. Io mi occupo di far lavorare le persone, visto che abbiamo una disoccupazione pazzesca».
«Mi piacerebbe arrivare un giorno al sindacato unico, ad una legge sulla rappresentanza sindacale e non più a sigle su sigle su sigle» disse il premier Renzi alla trasmissione Bersaglio Mobile su La7. Affermazioni che furono molto criticate, in primis dalla Cgil di Susanna Camusso che ribadì che il sindacato unico sognato da Renzi «esiste solo nei regimi totalitari» e che l’idea era «concettualmente sbagliata perché presuppone che la totalità di orientamenti e la rappresentanza di tutti i soggetti, anche diversi, che vi sono nel mondo del lavoro, vengano inclusi in un pensiero unico che non fa parte della modernità».
Torniamo adesso sulla narrazione della rottamazione che altro non fu che una retorica populista per nascondere un’altra volontà: quella di epurare il Pd dalla sua componente più di sinistra per imprimere al partito una direzione liberista. Così notò Michele Prospero sull’Unità il 19 ottobre 2012, nell’articolo “La genealogia della rottamazione”, sottolineando l’analogia tra la rottamazione proposta da Renzi e la Grande Campagna della Rottamazione lanciata dal fascismo: «Il bersaglio di Renzi non è l’avversario politico (si invitano anzi le truppe della destra a portare soccorso) bensì il rivale interno».
Per Prospero quella della rottamazione era una narrazione insidiosa e profondamente populista, carica di violenza, come sottolineò ricordando la messinscena che fu fatta davanti al camper di Renzi ad Empoli, quando un uomo mascherato da D’Alema si fece immortalare mentre era disteso davanti al camper con la scritta “Matteo Renzi adesso!”. Come se fosse stato appena investito: «Come non vedere un embrionale carico di violenza (per ora sfociata «solo» nell’uomo con la maschera di D’Alema investito dal camper) nella ricerca dell’applauso facendo il nome di un politico dello stesso partito preso come il simbolo del male?».
Una narrazione che per il politologo era, per diversi aspetti, simile alla retorica giovanilista che fu del fascismo: «Anche la rottamazione […] è ben visibile nella scenografia del fascismo. Talune correnti interne al regime contrapponevano i giovani e i dirigenti pantofolai. De Felice («Mussolini il Duce», p. 241) riporta questa tendenza dei giovani “di condurre avanti la rivoluzione, non già contro gli antifascisti, sbaragliati dai nostri predecessori, ma piuttosto in antagonismo con questi ultimi, ormai esposti alla tentazione della vita comoda”».
La sconfitta al referendum costituzionale del 2016, da lui tanto voluto, segnò irrimediabilmente la stella di Renzi che, tuttavia, riuscì a vincere con larghissima maggioranza le primarie del Pd del 2017, sconfiggendo Andrea Orlando e Michele Emiliano e conquistando ancora una volta la segreteria del partito. Ma la fortuna di Renzi finì con le politiche del 2018. Per l’occasione Renzi girò anche il suo spot pubblicitario a Bitonto affidandosi al regista Pippo Mezzapesa, della Fanfara Film e dell’agenzia di comunicazione Proforma. Nella pubblicità, l’ex premier pedalò nel velodromo del centro polifunzionale cittadino.
Ma la sua nuova corsa fu interrotta dal disastroso risultato del Pd e del centrosinistra. Nel 2019, usci definitivamente dal partito per fondare Italia Viva, nuova forza politica moderata.