Il ragionier Fantozzi? Un vero dantista! Chi non ricorda i congiuntivi sbagliati di Fantozzi, l’impiegato iellato ed imbranato interpretato da Paolo Villaggio? “Dichi“, “venghi“, “facci“, “vadi“, “abbi” ed altre amenità del genere costellavano il linguaggio del ragioniere e dei suoi colleghi, sottolineandone le modeste conoscenze grammaticali e la propensione all’errore ortografico ed ortoepico. Ancor oggi comuni, purtroppo, a milioni di Italiani. Eppure, tali “fantozziane” forme errate del modo verbale più difficile da coniugare hanno precedenti illustri.
Qualche esempio si trova proprio nella Divina Commedia del Padre della lingua italiana.
Cominciamo con “… vadi a mia bella figlia, genitrice dell’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi il vero a lei …” (Purg., III, v. 117): così Manfredi, re di Sicilia e figlio bastardo di Frederico II, si esprime con Dante perché lo aiuti a riscattare la sua (non a torto) pessima fama terrena, rivelando ai lettori del Poema che si è salvato dalla dannazione eterna. Del resto, Dante in persona nel cielo di Marte chiede ad uno spirito beato di rivelargli il suo nome, “… perché mi facci del tuo nome sazio” (Par., XV, v. 87), scoprendo che si tratta del suo trisavolo Cacciaguida.
Addirittura, si arriva a leggere: “or vo’ che sappi innanzi che più andi” in Inf., IV, v. 33, quando Virgilio spiega al nostro curiosone che quelle sotto i suoi occhi sono le anime del Limbo. Ed anche: “che l’abbi a mente, s’a parlare ten prende” (Purg , XVIII, v. 75) allorché sempre Virgilio raccomanda a Dante di ricordarsi della virtù della Ragione quando sentirà Beatrice parlarne. Gli strafalcioni dell’Alighieri sul congiuntivo continuano, per citarne qualcuno dei più madornali, con “metti” (“O Rubicante, fa che tu li metti“, Inf., XXIII, v. 40), “caschi” (“ivi convien che tutto quanto caschi“, cioè “cada“, Inf., XX, v. 73), “veggi” col significato di “veda” (“ma perché veggi mei ciò ch’io disegno“, dice Stazio a Virgilio in Purg , XXIII, v. 74).
A cui aggiungiamo noi il “venghi” del (poco accorto) commentatore Alessandro Lombardi nelle sue note al Par., XXX, v. 135, (vol. III, p. 448, 1822). Che siano licenze poetiche o necessità metriche o, più semplicemente, errori ortografici (del Poeta o dei copisti, non è dato sapere) lo conferma l’uso delle forme corrette in altri versi della Commedia, alle quali rimandiamo la curiosità altrui. Come rimandiamo anche ad una vecchia regola, un tempo imparata a memoria alle elementari: i verbi in -are hanno il congiuntivo in -i; quelli in -ere e in -ire, lo formano con -a.
Ricordiamola tutti, che ci “piacci” o no.