L’omino, elegante ma non troppo, come può essere un uomo di montagna, naso affilato e zigomi un poco puntuti, si è appollaiato su un trespolo in un cantuccio della piccionaia, ha frugato nella tasca della giacca e impugnato con delicatezza il pennino che usava quando andava alle elementari. Ha riconosciuto quell’orca strana sullo sfondo della scenografia: “Hi, il colombre”, ha sussurrato dentro di sé ed è stato come se lo avesse battezzato proprio in quel momento. Si è accucciato ancora di più perché nessuno si accorgesse di lui ed ha scoperto di avere nell’altra tasca un foglio bianco e stropicciato, pieno di rughe diresti, manco fosse una banconota dimenticata da un sarto diabolico in una vecchia giacca, ha ricordato quando scriveva aspettando un boato che non arrivava mai, quando restava in redazione nascosto dietro la porta dell’ufficio di Eugenio il poeta per sentire la melodia di quell’unico dito che batteva i tasti della macchina per descrivere. Oppure quando il direttore partenopeo Gaetano gli urlava spietato: “Dino, ma quando me la porti una notizia una?”. Mercè il chiarore leggero che con parsimonia si effondeva dal palcoscenico ha preso a vergare quello che era sicuro sarebbe divenuto il sessantunesimo racconto: “David Ottolenghi, 67 anni, era un distinto signore con la chioma ormai brizzolata ed una voce che ancora riusciva ad essere stentorea. Era nato col sogno di far sorridere gli altri mostrandosi ognora iracondo. Sentiva di avere, però, un inspiegabile vuoto dentro l’anima, come un abisso di nulla che, pur tra mille persone, lo faceva sentire sempre solo: con quel nome non lo conosceva proprio nessuno. Figurarsi se lo riconoscevano. Già, perché quando calpestava l’impiantito si faceva chiamare Gioele Dix, un po’ biblico, un po’ jazz, allora sì che tutti sapevano chi era, e quando recitava si sentiva felice come un bambino, col cuore allegro epperò velato di malinconia. E quella sera, insieme alla giovane, proteiforme e impertinente Valentina Cardinali, si era messo in testa di narrare le storie meravigliose e piene di incanto che sgorgavano dalla fantasia realistica e magica di un giornalista che era pure scrittore e pittore: Dino Buzzati Traverso…”. E qui, l’omino misteriosamente si emozionò, ripose pennino e foglio nella tasca della giacca – ah, questo benedetto ticchio di lasciar tutto incompiuto -, sgattaiolò fuori dall’antico teatro e, mentre dentro sentiva nitidamente scrosciare festosi applausi, senza essere visto da nessuno, nel cielo della sera si fece vento…