Terzo appuntamento elettorale del 2005 fu, come già anticipato nel precedente appuntamento di questa rubrica, quello referendario, che si tenne il 12 e il 13 giugno. Quattro furono i quesiti sottoposti a referendum abrogativo, tutti proposti dai Radicali, che, l’anno precedente, avevano depositato in Corte di Cassazione la richiesta di proporre, tramite questo tipo di appuntamento elettorale, l’abrogazione di specifiche disposizioni della legge 40/2004, riguardanti “norme in materia di procreazione medicalmente assistita“.
Le proposte referendarie dei Radicali puntavano a garantire la fecondazione assistita non solo alle coppie sterili ma anche a quelle affette da patologie geneticamente trasmissibili, eliminare l’esclusività del ricorso alla tecnica solo nel caso in cui non vi siano altri metodi terapeutici sostitutivi, garantire la scelta delle opzioni terapeutiche più idonee ad ogni individuo, dare la possibilità di rivedere il proprio consenso all’atto medico in ogni momento, ristabilire il numero di embrioni da impiantare. Fu dichiarato inammissibile, invece, il quesito che chiedeva l’abrogazione totale della legge.
Ad appoggiare i referendum proposti dai Radicali, l’associazione Luca Coscioni, i Democratici di Sinistra, i Socialisti Democratici Italiani, Rifondazione Comunista e membri di vari partiti.
Da parte cattolica, invece, ci fu chi, come il cardinale Camillo Ruini, invitò a boicottare il voto e a disertarlo, per evitare che il quorum del 50% + 1 degli elettori fosse raggiunto.
«Siamo cioè per una consapevole non partecipazione al voto, che ha il significato di un doppio no, ai contenuti dei quesiti sottoposti a referendum, che peggiorano irrimediabilmente e svuotano la legge, riaprendo in larga misura la porta a pericolosi vuoti normativi, e all’ uso dello strumento referendario in una materia tanto complessa e delicata» aveva spiegato Ruini sulle pagine del Corriere della Sera, indicando quel non voto, non come «una scelta di disimpegno, ma al contrario di opposizione in maniera netta ed efficace a una logica che, a prescindere dalle intenzioni dei suoi sostenitori, mette in pericolo i fondamenti umani e morali della nostra civiltà».
Un intervento che scontentò chi vedeva in tali parole un’invasione della Chiesa cattolica nel campo della politica. Tra questi ci fu il bitontino F.D. che, sulle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno, così scrisse: «Così come stanno le cose, la religione si trova su un piano di vantaggio rispetto alla politica. L’invasione di un religioso nel campo della politica viene giustificata con la considerazione che ii fedeli partecipano e subiscono le decisioni politiche e, pertanto, i religiosi si sentono in dovere di assumere iniziative per la loro difesa o per far valere i propri principi. Di qui l’intervento del cardinale Ruini nell’invitare i cattolici a disertare le urne del referendum sulla procreazione assistita».
«La politica, invece, non ha nessuna possibilità di intervenire in ambito religioso, perché questo è di competenza esclusiva dei religiosi e anche perché ogni cosa religiosa è sacralizzata, per cui coloro che dovessero intromettersi rischierebbero di incorrere nel reato di vilipendio della religione. Perché allora, per la pari opportunità, non viene prefigurato anche il “reato di vilipendio della politica”, per quei religiosi che spavaldamente tendono a boicottare gli istituti politici, fino a compiere atti tendenti a vanificare il dispendioso lavoro di esponenti politici, compromettendo anche la loro dignità?».
Uno scontro, quello tra politica e religione, di certo non nuovo, che spuntava ogni volta si toccassero temi etici. Uno scontro tra chi sosteneva il diritto della chiesa ad esprimersi su determinate posizioni, in rappresentanza della gran parte dei cittadini di fece cattolica, e chi sosteneva che, per il principio della libera Chiesa in libero Stato, non avrebbe dovuto farlo, lasciando alla sola politica il diritto.
Alla fine, ad averla vinta, fu chi proponeva l’astensione. Solo il 25,9% degli aventi diritto si recò alle urne. Un risultato che, ovviamente, non fu certamente dettato dalle parole di Ruini e da chi come lui invitò al non voto. Era, invece, il naturale prosieguo di una tendenza all’astensione che iniziò già da fine anni ’70 e che abbiamo già avuto modo di sottolineare in più occasioni.
«È abbastanza evidente che ci sia un progressivo sentimento di delusione che è cresciuto nel corso degli anni ‘90. Visto che la democrazia rappresentativa funziona male, ecco allora che la democrazia diretta genera una reazione quasi di insofferenza nel momento in cui viene avvertita come un surrogato della democrazia rappresentativa» disse il sociologo Ilvo Diamanti a Repubblica Radio.
Ovviamente, la gran parte dei votanti votò favorevolmente all’abrogazione delle leggi incriminate (89,17% al primo quesito, 89,88% al secondo, 88,80% al terzo e 78,16 al quarto).
Inferiori furono i dati relativi a Bitonto. A cominciare da quello sulla partecipazione. Solo il 20,9% votò. I favorevoli furono l’85,62% al primo quesito, l’85,57% al secondo, l’84,47% al terzo e il 70,91% al quarto.