«Occorre che Bitonto, previa consultazione primaria con voto segreto, a cui partecipino tutti i partiti con i migliori uomini, scelga due o tre nominativi, indipendentemente dal partito che li ha presentati, onde far convergere tutti i voti della cittadinanza ed avere il candidato della città, con molte probabilità di rappresentarla e far sentire la sua voce al Parlamento della Repubblica».
Scriveva così, nel dicembre del 1991, sulle pagine del Da Bitonto, l’allora direttore e fondatore Franco Amendolagine, chiedendo, con oltre 10 anni di anticipo, l’introduzione, almeno a Bitonto, di un nuovo tipo di consultazione elettorale: le primarie.
Ad Amendolagine, nel numero di febbraio e marzo, rispondeva Michele Giorgio, che bollò come utopistica l’eventualità di queste elezioni. «L’ideale sarebbe arrivarci, ma per ora non mi sembra un traguardo raggiungibile – spiegò Giorgio -. Tenuto conto del modo in cui si vive oggi la vita politica sia a livello nazionale che locale; del conflitto permanente esistente tra i partiti e nei partiti; della concorrenza spietata che si fanno tra loro gruppi e uomini; delle logiche spartitorie e di potere che condizionano la vita interna dei partiti».
Come detto poc’anzi, il dibattito tra Amendolagine e Giorgio giungeva con diversi anni di anticipo. Per avere, infatti, per la prima volta, le primarie in Italia, fu necessario attendere il 28 novembre 2004. Fu in quell’anno che questo nuovo strumento elettorale fu utilizzato per la prima volta in Calabria. L’Unione lo usò per nominare, come proprio candidato, Agazio Loiero. Meno di due mesi dopo, il 16 gennaio 2005, fu la Puglia a sperimentarle. Ancora una volta l’Unione, che le utilizzò per permettere all’elettorato di scegliere quale sarebbe stato il candidato alla carica di presidente della regione, tra Nichi Vendola, deputato di Rifondazione Comunista, e Francesco Boccia, allora assessore al Comune di Bari ed esponente della Margherita. A Vendola andarono 40.358 preferenze (50,9%) mentre Francesco Boccia della Margherita ottenne 38.676 voti (49,1%). L’affermazione principale Nichi Vendola la ebbe a Bari e in provincia dove conquistò 17.153 voti, oltre 3.400 in più di Boccia. Fu quindi Vendola a sfidare il governatore uscente Raffaele Fitto alle regionali del 3 e del 4 aprile dello stesso anno. Elezioni che portarono alla vittoria del comunista terlizzese. Il 20 febbraio 2005, furono i Democratici di Sinistra toscani ad utilizzare le primarie per nominare i candidati al consiglio regionale.
Da allora, le elezioni primarie sono state utilizzate svariate volte, principalmente dal centrosinistra, che le ha sempre considerate un nuovo strumento di partecipazione, per riavvicinare le persone alla politica attiva e per farle sentire maggiormente rappresentate da candidati più vicini a loro. Soprattutto nelle elezioni locali. Il primo importante esempio di elezione primaria su scala nazionale e indirizzato a tutti gli elettori italiani di centrosinistra ci fu il 16 ottobre del 2005, quando l’Unione chiese ai suoi elettori di scegliere il candidato alla Presidenza del Consiglio dei ministri per le elezioni politiche che si sarebbero tenute l’anno successivo. La consultazione conferì l’incarico a Romano Prodi che vinse contro Fausto Bertinotti, Clemente Mastella, Antonio Di Pietro, Alfonso Pecoraro Scanio, Ivan Scalfarotto, Simona Panzino.
Il successo delle primarie nazionali del 2005 spinse, negli anni successivi, i partiti e le coalizioni di centrosinistra a fare largo uso di questo meccanismo per selezionare i loro candidati, anche a livelli politici locali. O anche per indicare i segretari di partito, portando alla vittoria prima Walter Veltroni e poi Pier Luigi Bersani. Un utilizzo che si è trasformato in un vero e proprio abuso di questo strumento già di per sé ambiguo.
Anche a Bitonto, le primarie furono utilizzate per la scelta del candidato sindaco di centrosinistra, nel 2008. A vincerle fu Giovanni Rossiello, contro Emanuele Sannicandro, Michele Picciariello e Giovanni Ciccarone. Ma la vittoria alle primarie, come vedremo, non fu seguita da quella al vero appuntamento elettorale, quello delle amministrative, in cui Rossiello perse contro Raffaele Valla.
Il centrodestra, invece, raramente ha utilizzato le primarie per la selezione dei candidati e, in molti casi, le ha esplicitamente rifiutate. Nella Casa delle Libertà, primo a chiederle fu l’allora leader dell’UDC, Marco Follini, in vista delle politiche 2006, per nominare quello che avrebbe dovuto essere il Primo Ministro proposto dalla coalizione. Ma, a seguito di discussioni interne alla coalizione, la proposta svanì. Un successivo tentativo di indire primarie di centrodestra in vista delle politiche 2013 fu fatto da Angelino Alfano, segretario del Popolo della Libertà, ma la ricandidatura di Silvio Berlusconi annullò tutto. Il 7 dicembre 2013 la Lega Nord organizzò elezioni primarie, ma, questa volta, riservate ai soli iscritti al partito con almeno un anno di militanza, per eleggere il nuovo segretario federale del partito. Fu nominato Matteo Salvini. L’anno successivo Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale, il 22 e 23 febbraio, mise in piedi delle primarie nazionali, aperte a tutti i cittadini dell’Unione Europea dai sedici anni d’età in su, per la scelta del proprio presidente, dei grandi elettori delegati al congresso nazionale e del nuovo simbolo. La consultazione fu vinta da Giorgia Meloni.
Come anticipato, soprattutto a sinistra, le primarie furono presentate come nuovo strumento democratico di partecipazione politica, per riaffermare la legittimità della politica, in calo da diversi anni.
Ma è davvero così? Esse sono davvero uno strumento di democrazia partecipata per la scelta della leadership, come sostengono illustri autori come Pasquino? O, al contrario, contribuiscono a delegittimare ulteriormente i già deboli e liquidi partiti odierni e la loro risicata membership, favorendo la personalizzazione della politica e togliendo loro una delle più importanti funzioni, la selezione del leader o del candidato? Garantiscono una più virtuosa cultura politica e, dunque, una “democrazia più democratica” (Marco Valbruzzi, 2005, “Primarie. Partecipazione e leadership”) o sono solo un’espressione del direttismo, che Enrico Melchionda definì un “virus polimorfico” che rischia di distruggere le democrazie contemporanee? Sono davvero la cura alla crisi di legittimità che affligge i partiti, o sono parte della malattia, della stessa crisi?
Per dare una risposta a queste domande occorre fare un breve viaggio spazio-temporale nella terra d’origine delle primarie, gli Stati Uniti d’America, per verificare come la loro istituzione abbia comportato conseguenze negative in termini di partecipazione e di rappresentazione.
Ma andiamo con ordine. Nelle loro varie tipologie, possono presentarsi in vari modi: primarie di partito o di coalizione, aperte a tutti gli aventi diritto al voto o chiuse ai solo membri o simpatizzanti del partito, obbligatorie per legge, come negli Usa, o organizzate a discrezione del partito, come in Italia. Il loro obiettivo è, a detta dei sostenitori, aumentare la partecipazione dei cittadini, specialmente quelli non iscritti in partiti, e il loro ruolo nella scelta del candidato leader, altrimenti relegata al chiuso delle segreterie partitiche.
Esse offrirebbero alla società civile la possibilità di esprimersi, in tutta la sua molteplicità di forme. Permetterebbero al cittadino comune di essere attivo, informato e attento a quel che succede dentro e fuori ai partiti. Darebbero, in tal modo, nuova legittimazione e rigenerazione a strutture appesantite e distanti dal tessuto sociale. Renderebbero l’organizzazione interna del partito più democratica e accogliente verso la società e le sue nuove richieste. Dato che gli attivisti non svolgono più un ruolo centrale nel processo decisionale, esse servirebbero per controllare ed eventualmente sanzionare il comportamento del leader.
Un primo esperimento di primarie, nel Partito Democratico degli Usa, si tenne in Pennsylvania nel 1847, per poi diffondersi soprattutto nel Sud. Ad intuirne per primo le potenzialità fu il progressista Robert La Follette, governatore del Wisconsin, che, nel 1903, le rese obbligatorie per tutte le cariche elettive nel proprio Stato. Da allora, per tutto il secolo successivo, fino alla loro definitiva istituzionalizzazione negli anni ’60 (gli anni in cui, in Occidente, iniziò la crisi della politica tradizionale), si diffusero in tutti gli stati, per tutte le cariche elettive, sostituendo il precedente sistema del caucus, un’assemblea di un partito politico o di un sottogruppo per coordinare l’azione dei suoi membri, stabilire un orientamento collettivo o nominare i candidati a una carica. Quello che, per noi, è il congresso di un partito. Un sistema accusato di aver prodotto la partitocrazia, di aver creato un sistema governato da macchine politiche al servizio di boss senza scrupoli, che servendosi di rapporti clientelari, patronage, corruzione e spoils system, esercitavano un ferreo controllo sul voto popolare e sulle istituzioni locali e statali, saccheggiando le risorse pubbliche. Questo, per parte dell’opinione pubblica, erano diventati i partiti politici. Non più quei fattori di democratizzazione descritti, nel suo Viaggio in America, da Alexis De Tocqueville.
Divennero organizzazioni pigliatutto prive di valori e interessate alla mera vittoria, che ostacolavano l’espressione di quelle virtù civiche che loro stessi avevano contribuito ad alimentare. Dopo aver favorito la democratizzazione, il sistema dei partiti divenne, per l’opinione pubblica, profondamente antidemocratico. E, per colpirlo, si pensò bene di colpire proprio una delle principali funzioni di un partito: la scelta del candidato. Ed è proprio per sottrarre tale prerogativa che furono ideate le elezioni primarie.
Fu, per Melchionda, la “madre di tutte le riforme” e rappresentò uno spartiacque nella storia americana, segnando il passaggio da un sistema politico imperniato sui partiti, ad uno post-partitico, in cui personalizzazione, centralizzazione e professionalizzazione sono diventate le parole d’ordine del nuovo sistema. La politica americana ha assunto come nuovo fulcro la personalità del candidato e si è sempre più trasformata in spettacolo. Si sono aperte le porte ad una personalizzazione che non riguarda solo l’arena presidenziale, ma coinvolge il rapporto tra eletto ed elettore (Mauro Calise, Il partito personale). Espropriati della loro funzione basilare, la nomina del candidato o del leader, i partiti hanno visto ridursi la propria influenza e hanno smarrito l’identità. Si sono sempre più ritirati dalla società, con pesanti conseguenze in termini di partecipazione e di rappresentanza, in particolare per quanto riguarda i meno abbienti, che proprio grazie ad essi avevano ricevuto maggiore attenzione da parte delle istituzioni. Nate con un fine preciso, le primarie, in America, ne hanno realizzato l’esatto opposto.
Uno scenario che con largo anticipo ha anticipato quello italiano. Anche qui le primarie nacquero in un contesto caratterizzato da antipolitica, disprezzo e risentimento verso i partiti e concezione individualista della politica. Un contesto che si era sviluppato nei decenni precedenti per imporsi negli anni ’90 con la caduta dei tradizionali partiti politici. Non è un caso che, tra i primi ad utilizzarle, fu Nichi Vendola, fautore di una narrazione politica populista che, sfruttando i nuovi strumenti mediatici garantiti dal web, cercò di allontanarsi quanto più possibile dalle forme classiche dell’organizzazione politica. Padre di un partito, nato di lì a breve, che fu a tutti gli effetti personale: Sinistra Ecologia e Libertà.
In Italia, i primi progetti di istituzionalizzazione delle primarie furono presentati dal costituzionalista Costantino Mortati, nel ’45, e da Sturzo e D’Ambrosio, nel ’58 e nel ’61. Nell’85, in sede di Commissione Bozzi (Commissione Bicamerale per la riforma delle istituzioni) furono avanzate altre proposte, come quella, a firma di diversi costituzionalisti come Pietro Scoppola, Gianfranco Pasquino, Eliseo Milani, di costituzionalizzare il principio delle primarie per la selezione dei candidati in un rinnovato articolo 49 della Costituzione. Tentativi che presupponevano una forte critica verso la partitocrazia italiana. Ma nessuna di queste proposte fu mai approvata. Primo tentativo andato in porto di regolamentare ex lege la materia fu nel 2004, in Toscana, con la legge regionale 70, che sancì la facoltà di adottare questo metodo di selezione dei candidati.
Come sottolineò Michele Prospero in Il partito politico, l’illusoria democratizzazione, introdotta tramite le primarie, ha reso i partiti delle realtà aleatorie e permeabili ai poteri privati. Istituite per garantire un maggiore accesso alla cosa pubblica, da parte dei cittadini, hanno sorbito l’effetto opposto.
Nel retorico e ostinato tentativo di inseguire l’American way of life, anche in politica, e nella speranza di riuscire a superare l’ostacolo derivante dalla maggiore forza della destra berlusconiana, il centrosinistra introdusse questo nuovo modo di selezione del candidato, per darsi una nuova legittimità. Quella legittimità che, invece, nell’avverso emiciclo, era tratta dal rapporto carismatico con l’elettorato e dalle ingenti risorse mediatiche. Ma il risultato ottenuto fu una cattiva copia del modello d’oltreoceano e comportò l’introduzione, anche nel centrosinistra, di un modus operandi che non differiva molto da quello di Berlusconi. La sinistra italiana, nell’ansia di eguagliare la forza dell’avversario, si autoindebolì ulteriormente, scambiando la malattia per la cura. Delegando all’esterno, al cittadino astratto, una funzione vitale per un partito, come la scelta del candidato e perdendo la propria identità. Dividendosi sempre più al proprio interno ed emarginando l’iscritto, che, invece, con il proprio contributo, fisico ed economico, rappresenta un’importante risorsa che un partito dovrebbe valorizzare, in quanto è lui che si riconosce in un’appartenenza comune, tanto da accollarsi oneri in termini di contributi finanziari e di azione quotidiana. Non l’elettore indifferenziato, che, per dirla con Prospero (“Elogio della mediazione”, in Democrazia e Diritto), sparisce subito dopo aver votato il leader più carismatico nel gazebo allestito in occasione delle primarie, disertando sezioni e circoli e snobbando una partecipazione politica più attiva. Non l’elettore chiamato ad esprimersi “solamente su invito”, per utilizzare un’espressione del politologo statunitense Steven Schier, autore di “By invitation only”, che descrive un sistema che, con la crisi dei partiti tradizionali, vede diminuire il ruolo dei militanti e sostituisce i classici strumenti di mobilitazione con l’activation, che indica i nuovi metodi utilizzati dai partiti, dai gruppi di pressione per coinvolgere un numero limitato di potenziali elettori interessati ad un messaggio specifico. Metodi che prevedono l’utilizzo di telefono, posta diretta, internet e, in generale, nuovi mezzi di comunicazione e l’assunzione di sondaggisti ed esperti di marketing e di fund raising.
Le primarie sono figlie di un populismo che porta a scagliare gli elettori contro gli iscritti e a prediligere processi comunicativi basati sulla spettacolarizzazione e sulla personalizzazione. Quella delle primarie rappresenta solamente un’illusoria democratizzazione, specialmente in paesi, come l’Italia, in cui vige un sistema parlamentare, in cui non spetta all’elettorato eleggere il capo del governo.
Segnano la resa di fronte all’avanzare del modello del partito elettorale. Segnano il suo affermarsi come unico modello possibile. A causa delle primarie, nuovi partiti personali hanno visto la luce. Partiti liquidi e deboli, che nulla possono contro la volontà del proprio leader, acclamato a furor di popolo dai cittadini. Partiti in cui è azzerato il ruolo dei militanti e dei gruppi dirigenti, anche grazie a nuovi mezzi di comunicazione che possono dar l’illusione, talvolta di un contatto aperto e diretto con il capo.
Tutto questo rappresenta un chiaro sintomo di debolezza, scambiato, tuttavia, spesso per decisionismo, nell’erronea convinzione che troppa democrazia interna è nociva per l’efficacia e la stabilità interna del partito.