DI ILARIA PASTORESSA
A mio padre. Amavo a tal punto mio padre da odiare la sua assenza, i suoi demoni, il suo declino. L’ho odiato quando odiavo me stessa, lo amavo ancor più quando la vita mi ha dato una ulteriore ragione di felicità. Era una convenienza, come tutte le belle cose che “convengono” e fanno bene.
Mio padre era il pilastro delle mie macerie, della mia famiglia, mentore delle mie decisioni, nemico dei miei istinti, supporto dei miei tentativi. Era la libertà su due ruote, era l’incoscienza e la premura. Era l’amicizia e la stima, la fratellanza, l’approdo e l’appiglio di molti. Il porto sicuro. Il ristoro. La tappa intermedia.
Era la tecnologia sapiente, era la testarda lealtà. Mio padre era la radio, la frequenza che suonava i ventisei minuti di Shine On You Crazy Diamond in loop sulla Ionica, d’estate, in viaggio verso la Calabria. Mio padre era la voce di Battisti mentre la campagna fioriva in primavera nei Giardini di Marzo. Mio padre era il sentimento d’appartenenza, il matrimonio fedele, era la giustizia personale, sovversiva.
Era un gilet in jeans pieno di toppe ed una Dunhill rossa sottile nella mano destra ad ogni minuto dell’esistenza. Mio padre era un uomo colto, pratico, dalla manualità eccezionale e dalle capacità sorprendenti. Era ammirabile. Invidiabile. Ho conosciuto mio padre con il suo splendore e l’ho poi cercato nelle ombre della sua mente con lo sguardo, il pensiero, nella distanza. La stessa che mi ha privata degli ultimi attimi insieme. Chi ha visto un burbero orso dai grandi baffi e dai capelli crespi ricci e voluminosi s’è sempre sbagliato, con grande vergogna da provare, aggiungo. Compresa me.
Il suo corpo ha chiuso il male in un buco nero di emozioni ed è esploso mentre gli occhi stanchi chiedevano pace e respiro. Mio padre era un polmone che prendeva ossigeno dall’iniziativa e dalle soluzioni, era quella persona che ” sapeva cosa fare “, a cui tutti si rivolgevano e su cui tutti contavano.
Arcangelo Pastoressa aveva il dono dell’unicità come ogni essere umano ma non me ne vogliate se lo ricordo con convinzione indispensabile e senza pari. Il suo funerale, tra gli applausi quasi inopportuni a celebrarne l’immortalità e le motociclette fumanti ad accoglierlo è stato un rito quasi tribale di rispetto e devozione. Emozionante, inaspettato, sorprendente. Eccessivo, indimenticabile. La morte è una condizione della vita che accetto ma non comprendo. La morte per me è una forma di rancore intraducibile. La morte è un accadimento balordo che toglie l’anima e la rivomita distrutta così come rimango, attonita, nel silenzio della mia casa d’infanzia, guardando mia madre e i miei fratelli saturi di dolore e tristezza. Nessuna divinità a far da paciere tra la ragione e la disperazione, solo la vita che continua e sussiste.
A mio padre devo il mio tormento, il mio cuore squilibrato, la mia esistenza. A mio padre devo la mia grande forza e la mia imbarazzante fragilità. Ti guardo di spalle, forte e presente, ascoltare l’ultimo infinito concerto della tua vita, con il battito del cuore a ritmo di musica e rombo di motore. Non abbandonarmi mai più.
Tua figlia