«La attuale gravissima crisi politica, istituzionale e morale italiana è il punto d’arrivo di un sistema politico nato e sviluppatosi in particolari condizioni storiche, che hanno prodotto la completa identificazione tra democrazia e sistema dei partiti. Ne è conseguita l’occupazione, in nome della democrazia progressiva, delle istituzioni e della società civile da parte degli stessi partiti, in un regime di non responsabilità garantito da una condizione assolutamente eccezionale: l’assenza di alternanza all’interno di un quadro consociativo. La vicenda politica e i suoi protagonisti si sono così sottratti per decenni ai fondamentali meccanismi di controllo propri dei sistemi politici democratici».
Iniziava con queste parole il manifesto costitutivo del “Movimento per la Democrazia – La Rete». Un movimento politico che partì dalla Sicilia, da quella stessa terra da cui partì l’attacco allo stato di Cosa Nostra. Nacque nel 1991, per iniziativa di Leoluca Orlando, già sindaco di Palermo dal 1985 al 1990. Con “La Rete” Orlando volle ripetere quell’esperienza che, nel capoluogo siciliano, l’aveva portato a ricoprire la carica di sindaco: un’unione tra cattolici e sinistra. Dopo aver lasciato la Democrazia Cristiana, in seguito allo scontro con la destra andreottiana, l’ex sindaco registrò a Roma l’atto costituivo del nuovo movimento. Era il 21 marzo, il primo giorno di primavera. Una data non casuale. Ricordava la “primavera di Palermo”, espressione con cui fu appellato il mandato da sindaco di Orlando, per le attività per la legalità e per la promozione e il recupero dell’immagine della città in Italia e nel mondo, danneggiata, umiliata dalla lunga sequela di omicidi e crimini commessi da Cosa Nostra, che, nel ’92 avrebbe raggiunto il suo apice.
“La Rete” nasceva in un periodo in cui i tradizionali partiti politici erano ormai in piena crisi. Da poco più di un mese, il Pci era scomparso, mentre gli altri erano alle prese con fenomeni di corruzione e conseguenti inchieste giudiziarie di Mani Pulite, che minarono quel po’ di legittimità che ancora avevano. Erano alle prese con un’antipolitica che aveva raggiunto il massimo della sua forza, grazie alla cassa di risonanza fornita dai giornali, riviste e, soprattutto, televisioni. Un’antipolitica che aveva invaso anche l’elettorato di sinistra e che veniva propagandata anche dalla cosiddetta sinistra televisiva di Santoro, Augias e altri. A rendere ancor più complicata la situazione, gli sconvolgimenti in politica estera, la crisi finanziaria, gli attentati della mafia. Era in corso una vera e propria crisi della democrazia e dei suoi protagonisti, anche se, all’epoca, questo non fu affatto chiaro. Al sistema dei partiti, espressione, nel dopoguerra, delle libertà riconquistate, si rimproverava di essere «diventato una cappa soffocante per le fondamentali libertà dei cittadini», come si denunciava nel documento costitutivo della Rete: «È in atto, al suo interno, una combinazione di spinte antidemocratiche, provenienti da oligarchie partitiche, da presenza crescenti di economia illegale e, in forme più brutali, dai poteri occulti e criminali mafiosi che assaltano, pressoché indisturbati, lo Stato di diritto».
Una situazione che, per l’ex (e anche futuro) sindaco siciliano, rendeva necessario il ritorno dei valori di libertà e onestà al centro della politica, contro uno Stato «che uccide o lascia uccidere, che ruba o lascia rubare». Un ritorno che, per Orlando, era l’obiettivo del nuovo soggetto politico, un movimento che «raccoglie, a titolo personale, e non in rappresentanza di organizzazioni, sigle o componenti, cittadini di diversa formazione e identità, disposti a percorrere insieme un pezzo di strada sulla base di rapporti di reciproca fiducia e su un piano di assoluto rispetto per i tratti non condivisi delle proprie complessive identità culturali».
In sostanza, la Rete fu il primo movimento post-ideologico che si affermò in Italia, riportando a livello nazionale quel che già stava avvenendo in vari contesti locali, con la nascita di numerose liste civiche nate senza una ideologia di riferimento, in alternativa ad un sistema partitico visto come qualcosa da cui liberarsi, in quanto foriero di corruzione e malapolitica. Racchiuse, al suo interno, culture politiche diverse, in nome di un programma che evocava legalità, pace, ambiente. Una strada che, qualche anno dopo, avrebbero seguito l’Italia dei Valori prima, e il Movimento 5 Stelle in anni più recenti.
«I partiti tradizionali agonizzavano travolti dal crollo del muro di Berlino, incapaci di pensare un futuro. Le nobili tradizioni politiche dei democristiani, dei comunisti, dei socialisti, dei liberali, erano diventate scatole nelle quali rinchiudere le proprie identità. La Rete si pose subito come movimento trasversale, una grande tenda post-ideologica» ha recentemente dichiarato Orlando in un’intervista rilasciata all’Ansa nel marzo 2021, a 30 anni dalla fondazione della Rete: «Ci immaginammo subito come un movimento a tempo, – sottolinea il fondatore – tant’è vero che dopo un po’ cambiammo il simbolo da Rete per la Democrazia a Rete per il Partito Democratico (nel, 1996, prima di confluire in “I Democratici” nel 1999 e, quindi, scomparire, ndr)».
La Rete fu, quindi, anche anticipatrice dell’idea di partito personale, che avrebbe trovato la sua massima rappresentazione nel ’94, con la nascita di Forza Italia ad opera di Berlusconi. E anticipò l’era dei partiti liquidi, con durata dichiaratamente temporanea e dalla struttura leggera al posto di una fortemente gerarchizzata e diffusa sul territorio come quella dei partiti tradizionali. Da certi punti di vista, era simile alla Lega, ma, al posto delle idee secessioniste, fondava la sua identità e il suo antipartitismo sul progetto di una rivolta etica.
Al suo interno ospitò molti volti dell’antimafia come Claudio Fava, Giuseppe Livatino e Carmine Mancuso a Palermo. Le regionali siciliane del ’91 videro il primo successo della Rete, seguito dalle politiche del ’92, in cui riuscì ad eleggere in Parlamento Paolo Prodi, fratello di Romano.
Le amministrative del ’93, poi, videro il suo successo oltrepassare lo stretto di Messina e raggiungere Torino e Milano.
Scarsi furono i consensi che si ebbero a Bitonto, dove, alle elezioni del 1992, i suffragi raggiunsero per la sola Camera dei Deputati appena lo 0,75% (237 voti) e, nel 1994, lo 0,87% (260 voti).