Il 1990 fu l’anno in cui Bitonto cominciò a discutere su un argomento che avrebbe interessato l’opinione pubblica per i successivi 25 anni: l’istituzione della Città Metropolitana.
Fu quello, infatti, l’anno della legge 142, meglio nota come “riforma degli enti locali”. Una legge dalle conseguenze importanti importante non solamente perché ridefinì la disciplina degli enti locali, dando loro uno spazio ben più rilevante rispetto a quello avuto nei primi 45 anni di Repubblica, ma anche perché aprì la strada a tutta una serie di sperimentazioni di governance del locale, su vari aspetti. Si iniziò a pensare a nuovi modelli di rapporto tra elettori e politica locale e si iniziò a spianare la strada per quella che sarà definita la “stagione dei sindaci”, che, con la legge 81 del ’93, finirà per affidare una maggiore rilevanza politica al primo cittadino, alla luce della sua nuova elezione diretta, non più attraverso il consiglio comunale. Aspetti, questi, che vedremo più in là e che oggi tralasciamo per concentrarci su un’altra novità introdotta dalla legge 142 del 1990, come, appunto, la Città Metropolitana.
All’interno della 142, a parlare di Città Metropolitane erano gli articoli 17, 18, 19, 20 e 21. Il primo indicava le città che lo sarebbero diventate (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari e Napoli). Il 18, invece, elencava gli organi preposti al governo della città metropolitana (Sindaco, Consiglio metropolitano, Giunta), senza, tuttavia, aggiungere nulla sulla composizione degli stessi, dando per scontata l’applicazione delle stesse norme dettate per la Provincia, di cui avrebbe preso il posto.
L’articolo 19 disponeva al nuovo ente l’attribuzione delle funzioni già spettanti alla Provincia. Il 20 riguardava il riordino delle circoscrizioni territoriali dei comuni dell’area metropolitana, mentre il 21, infine, stabiliva che il Governo sarebbe stato delegato ad emanare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, appositi decreti legislativi per la costituzione, su proposta delle rispettive regioni, delle autorità metropolitane elencate nell’articolo 17.
L’iter che portò alla nascita del nuovo ente, tuttavia, durò anni ed anni, concretizzandosi solo nel 2014. La Città Metropolitana di Bari entrò in vigore dal 1° gennaio 2015, dopo che, per un quarto di secolo, la città si era interrogata sulla sua necessità e su vantaggi e svantaggi che avrebbe portato a Bitonto. Una discussione iniziata già all’indomani della legge 142 del 1990. Sfogliando le pagine del “da Bitonto” di quell’anno, infatti, è possibile rileggere confronti e riflessioni che contraddistinsero la politica di quell’anno, tra fiduciosi verso quella novità annunciata dalla legge e chi paventava rischi di perdita di peso e identità per i comuni non capoluogo, a vantaggio di Bari.
«La città è chiamata ad una decisione storica» titolò l’edizione di febbraio marzo di quell’anno, commentando positivamente la decisione del sindaco Michele Coletti di indire, in data 21 febbraio, una seduta aperta alla cittadinanza del consiglio comunale, consultando le forze politiche, economiche, sociali e culturali della città. E apprezzando il voto all’unanimità, espresso dal consesso, nella successiva seduta dell’8 marzo, su una serie di emendamenti «da porgere all’attenzione dei Senatori della Repubblica, affinchè il testo approvato dalla Camera dei Deputati venga modificato».
«Cittadini, il disegno di legge già approvato alla Camera e in attesa di discussione al Senato, che prevede la trasformazione di Bari in Città Metropolitana, difatti riduce Bitonto a quartiere periferico del Capoluogo» si scrisse nel testo dell’annuncio, a nome dell’amministrazione comunale, del consiglio comunale aperto del 21 febbraio: «Se tale legge dovesse essere definitivamente approvata, Bitonto perderebbe la sua identità. Il nostro Comune verrebbe privato delle sue competenze e spetterebbe ad altri decidere su tante e fondamentali questioni che riguardano la comunità bitontina. È doveroso che Bitonto si mobiliti per scongiurare una decisione di tale genere».
Per il sindaco socialista Coletti, motivo di contrarietà all’adesione bitontina alla nuova realtà territoriale era il mancato coinvolgimento dei comuni, chiamati ad una «adesione fideistica al buio». Parere condiviso anche dal suo predecessore Emanuele Masciale, che sottolineò che l’integrazione sarebbe dovuta passare attraverso «il consenso preventivo e programmatico della nostra comunità».
Il vicesindaco Giovanni Procacci definì l’ingresso di Bitonto nella Città Metropolitana barese un «ultimo atto» di un «costante e graduale processo di perdita di territorio, istituzioni, funzioni e con conseguente inglobamento nella aggressiva ed invadente realtà urbana di Bari». Un processo iniziato, per il politico democristiano, nel 1928, con il Regio Decreto che privò Bitonto della sua marina, Santo Spirito.
Anche un altro ex sindaco espresse la sua contrarietà. Fu Domenico Saracino, che invitò la politica e i cittadini ad uscire uniti dall’incontro a Palazzo Gentile, per evitare che «di fronte al sindaco metropolitano, il sindaco di Bitonto sarà di serie B, se non di serie C».
Un parere di segno opposto fu espresso da Michele Giorgio che si disse per un “sì condizionato” e, riportando il testo degli articoli e le competenze della Cit5tà Metropolitana, invitò a mettere da parte discorsi campanilistici: «Si tratta di competenze che superano gli stretti confini del territorio comunale e allargano la visione verso i più vasti ambiti di carattere intercomunale, facilitando la risoluzione di problemi che, in un’ottica municipalistica, difficilmente si potrebbero risolvere. Indubbiamente, dunque, la creazione di un’Area Metropolitana offrirebbe vantaggi per i Comuni che vi sono inseriti, anche per Bitonto, perché finalmente si proietterebbe l’attività amministrativa in un vasto ambito comprensoriale, armonizzando e integrando, nella programmazione, le risorse economiche e nello sviluppo del territorio, le risorse economiche sociali e culturali di più comuni».
Ma quello di Giorgio era, coma già accennato, un “sì condizionato”, dal momento che l’esponente democristiano riconosceva il rischio di perdita di identità sociale, economica e culturale e del potere di iniziativa dei comuni coinvolti. Per il docente, la soluzione era sì l’ingresso nell’ente, ma dopo una battaglia per ottenere modifiche al progetto di legge: «Bitonto non può rimanere isolata e astratta da un discorso di comprensorio. […] Bisognerà insistere nella richiesta che ciascun comune conservi le attuali competenze, continuando ad esercitare il suo autonomo potere di iniziativa e, nel frattempo, si dovranno prevedere dei limiti a questo potere, i quali dovrebbero consentire l’armonizzazione delle competenze di natura intercomunale, come la viabilità, il, traffico, la sanità, la scuola, l’ambiente ecc. L’Area Metropolitana dovrà risultare un “organismo policentrico”, armonizzato e coordinato da un “Consiglio Metropolitano”».
Diversi furono i pareri espressi durante quel consesso. Molti dei quali in linea con quelli già riportati. Sarebbe impossibile quanto inutile riportarli tutti. Parole differenti furono dette, invece, dai consiglieri del Pci, che invitarono a discutere mettendo da parte catastrofismi e retoriche municipaliste.
«Bitonto continuerà ad avere il suo consiglio comunale, continuerà ad avere il suo sindaco, continuerà ad avere la sua pienezza autoritaria di istituzione e di istituto comune» fu, invece, il parere di Giuseppe Rossiello, consigliere comunale del Pci, mentre il suo compagno di partito e capogruppo Giuseppe Lonardelli scrisse: «Si discuta seriamente, senza venire a dire ai commercianti che arriveranno gli ipermercati, perché tanto ci arrivano lo stesso e ci sono già arrivati; senza dire ai cittadini che arriveranno le discariche, perché ci sono già arrivate senza che il nostro comune abbia potuto opporsi».