DI FRANCESCO PAOLO DEL RE
“Il mio primo preciso ricordo è il Ritratto di uomo di Tiziano appeso nel salotto di una grande casa nel centro storico di Bitonto. Quella prima visita alla stupefacente dimora di Rosaria e Girolamo Mino Devanna, di fronte alla Cattedrale, in un giorno d’estate della mia tarda adolescenza, è stata un’illuminazione.
Lui non c’era, Mino, era in Romagna. Valentina, la nipote, camminava leggera per le stanze che conservavano una parte cospicua della sua vertiginosa collezione, prima che fosse donata allo Stato e diventasse museo, patrimonio pubblico, accesa di una luce che il mio cuore faceva fatica a comprendere e a trattenere. Per lei era normale camminare per quelle sale ricolme di incredibili meraviglie mentre io ero stordito, forse impaurito. Ricordo, di quella prima visita, di avere preso tra le mani un piccolo Goya e un bozzetto di Delacroix firmato (ora al museo). Più che ricordi, sono frammenti di ricordi, tanto forte era il batticuore. Se Mino era assente quel giorno, puro spirito, Rosaria era una presenza silenziosa, bonaria ma severa. Sapeva tutto con uno sguardo.
Dopo quella visita ricordo di avere scritto un racconto che avevo intitolato “Il dissolvimento di Giulio”. Nessuno saprebbe riconoscere l’ambientazione, ma la casa era quella, i quadri, le sculture. Non mi sembrava vero quello che avevo visto, toccato, sfiorato, domandato e forse per reazione avevo deciso che il protagonista sarebbe dovuto sparire, dissolto nella casa, nel suo pulviscolo, nella sua meraviglia stratificata (ancora non esisteva per me il pensiero di “Chi l’ha visto?” e mai avrei pensato di lavorarci). Tra tante meraviglie, non so perché nel corso di quella prima visita sono rimasto impressionato da due cose, infinitesimali rispetto a tutto il resto, ma per me significative in un modo che non saprei spiegare: pranzare davanti a una natura morta di Carlo Levi e poi i dipinti di Francesco Speranza.
Nasce da lì forse, da quel primo incontro mancato con il collezionista e dall’immersione profonda nella sua collezione (mi sembrava di rubare con gli occhi), il mio amore smisurato per Speranza (che in quella casa ammiravo per la prima volta) e il desiderio di diventare, a mia volta, un collezionista d’arte. Posso dire senza vergogna che la scoperta dell’universo delle passioni e delle ossessioni di Mino Devanna è stata una delle occasioni più importanti e fruttuose della mia vita. Mi ha aiutato a conoscermi meglio, a guardarmi dentro e a diventare quello che sono e quello che sarò. Un maestro anomalo, schivo, che forse di me e della gratitudine che gli porto nulla sapeva perché nell’oceano della sua vita fatta d’arte le occasioni dei nostri incontri sono state niente più che una goccia subito evaporata. Un collezionista onnivoro, coltissimo, che mi piace pensare spregiudicato come un bucaniere da romanzo e che invece è stato di una generosità ineguagliabile per il dono di bellezza e cultura che ha fatto alla mia cittadina, alla mia regione e alla mia nazione.
L’“Amante del Pollaiolo”, come Valentina mi diceva lo chiamavano i suoi amici storici dell’arte, le prime monete comprate quando era appena un bambino, il frammento scultoreo della Cattedrale trovato tra i rifiuti, i vasi peuceti che sembravano appena emersi da uno scavo e “Carlo Rosa è il peggior pittore del Barocco”, l’autoritratto secondo lui di Battistello Caracciolo (lo prende per mostrarmelo in questa fotografia, staccandolo dalla parete) e il suo Innocenzo X, derivato direttamente da Velázquez, che mi ha mostrato in occasione dell’ultima visita che gli ho fatto, a dicembre 2018, la terracotta di Michelangelo (“integra, a differenza di quella conservata a Casa Buonarroti”, si infervorava) e l’ambizione di avere scoperto un dipinto di un (im)possibile periodo italiano di Vermeer, la passione per il meridione e il dialogo da pari con i grandi musei internazionali, il gesto per me incredibile e commovente di avere portato la veduta di piazza Cavour a Bitonto dipinta da Speranza nella mostra a Palazzo Venezia a Roma che presentava la sua donazione.
Sono tornato in quella casa e nella galleria che porta il suo nome molte volte, anche con carissimi amici che non ci sono più tra i quali mi piace citare il mai dimenticato Francesco Sannicandro, ho scritto due volte di lui, una volta per Liberazione e una per Exibart, l’ho ascoltato raccontare e ho provato a rompere i suoi silenzi eppure posso dire di non conoscerlo affatto. Nonostante questo, il debito che personalmente ho nei suoi confronti è immenso e salutarlo, il giorno in cui il suo cuore cessa di battere, è un po’ come salutare una parte di me che certamente ancora sono nonostante sia certo che non tornerà più. Ciao Mino”