A sette secoli dalla scomparsa, si susseguono le iniziative in memoria di Dante Alighieri. Fra le tante, la realizzazione di un film sulla vita del Sommo Poeta. Una biografia, per solito, nasconde molte insidie fra le pieghe di vicende così lontane nel tempo, figuriamoci se si tratta di un personaggio così imponente come il “florentinus natione non moribus”. A realizzare la pellicola sarà il celebre regista Pupi Avati. Conscio dei pericoli di cui sopra, il professore Nicola Fiorino Tucci, presidente del comitato bitontino della carducciana Società Dante Alighieri, ha inviato una missiva sul rischio che i dantisti possano essere implacabili critici dell’opera al cineasta bolognese. Che, grato, ha subito risposto. “Gentile dottor Avati, ho appreso con molto piacere la sua intenzione di realizzare un film sulla vita di Dante, impegno da “far tremar le vene e i polsi”, per dirla col Poeta. Che sicuramente realizzerà da par suo. Al piacere provato si è, però, aggiunta subito qualche perplessità: non sulle sue capacità di cineasta (mi consenta il termine obsoleto), beninteso, ma sulla consulenza di cui ha dichiarato voler servirsi. Stia attento ai “dantisti”, la prego! Spesso, pur di fare filologia, perdono di vista gli aspetti più interessanti della vita di un Autore sacrificandoli o modificandoli in base alle loro non sempre corrette interpretazioni (per non dire pre/giudizi). Qualche esempio? Il nome, pensi al nome del Sommo Vate, che non ha precedenti nel suo ambito familiare (il padre si chiamava Alighiero ed il nonno Bellincione, il trisavolo Cacciaguida ed un altro parente Moronto ma di Dante prima di lui non c’è traccia) e non si sa da dove sia saltato fuori per un primogenito (tale era Dante), in barba alla tradizione dell’epoca tutt’oggi perdurante, come, penso, attesti anche il suo nome di battesimo, tributo ad un qualche nonno. Ed a proposito di “barba”: lo sa che Dante portava la barba? Nera, fitta e crespa, la descrive quel Boccaccio che lei farà interpretare, ho appreso, da Castellitto (ottima scelta). Ed era bassino ed aveva un colorito scuro ed andava “alquanto curvetto”, superati i cinquanta? E che dire di Beatrice? Ma se l’immagina lei un tizio, timorato di Dio come solo un medievale sa essere, andare in giro ammettendo di amare una Beatrice in un’epoca in cui al solo parlare di amore ti sbattevano in galera? Certo, l’hanno individuata molto approssimativamente (quei dantisti di cui sopra) con una tale Bice di Folco Portinari, (felicemente?) sposata con Simone de’ Bardi (cocu magnifique?), mentre lui, Dante, dico, lo era con Gemma di Manetto Donati, donna realmente esistita e coniugata Alighieri per oltre cinquant’anni (di cui venti di vedovanza). Matrimonio sereno dal quale nacquero ben tre maschi ed una femmina, nessuno dei quali porta il nome di un ascendente familiare ma, guarda caso, nel Paradiso altrettanti santi inquisitori sono loro omonimi: san Giovanni, san Pietro e san Jacopo (alias Giacomo) nel canto XXIV. Matrimonio anche felice ed economicamente stabile, anzi piuttosto agiato se è vero che sia l’Alighieri sia la moglie navigavano nella ricchezza (pensi che il figlio Pietro Alighieri acquistò nel 1347, pagandolo un sacco di soldi, un podere nei pressi di Verona, sul quale oggi si estende l’azienda vinicola dei conti Serego – Alighieri, legittimi ma non diretti discendenti del Sommo Poeta, produttori di ottimo Valpolicella). Altro che povertà! Ricchezza. Ed amicizie, inoltre. Queste ultime davvero importanti, anzi le più importanti dell’Italia centrosettentrionale dell’epoca: Malaspina, Visconti, della Scala, da Polenta, per citare quelle più conosciute. A proposito, son sicuro che i dantisti le suggeriranno che la famosa Francesca da Rimini era forse imparentata con Dante visto che la di lei madre era un’Aldaghieri di Ferrara e da Ferrara proveniva la trisavola del Nostro, come ammette, orgoglioso, il succitato Cacciaguida nel canto XV del Paradiso. E le ricorderanno anche che la morte del Nostro avvenne in circostanze improvvise e non propriamente chiare (il Boccaccio dice che infermò, cioè si ammalò, nel senso che “stette a letto per un certo periodo” prima di morire) ma fu un evento al quale parteciparono fior di intellettuali (perfino Cino da Pistoia, il migliore degli stilnovisti di seconda generazione!) e folla di popolo, a detta di quel curiosone del Boccaccio. Studioso serio, molto attendibile e piuttosto onesto nelle sue ricerche, che andò due – tre volte a Ravenna per raccogliere testimonianze e documenti su Dante. E le parleranno certo anche della scomparsa degli ultimi tredici canti del Paradiso avvenuta dopo la sua morte, oniricamente ritrovati dal figlio Pietro (uomo molto attivo, a quanto pare). Infine, non potranno tacerle che una Beatrice nella vita di Dante ci fu davvero ed in carne ed ossa: la figlia Antonia, monacatasi nel convento delle Olivetane a Ravenna (ci stette cinquant’anni, morì dopo il 1370) col nome di suor Beatrice, come ricorda una targa che il Rotary Club di quella città ha di recente restaurato. Son cose, queste, che mica ce l’hanno dette a scuola, vero, Maestro? E che, forse, non hanno importanza, a detta di molti (dantisti inclusi) ma contribuiscono a restituirci il profilo umano di Dante. Il che, credo, è quel che intende fare lei con il suo biopic (mi consenta il neologismo per pareggiare coll’obsoleto vocabolo di cui all’inizio). Che in tanti attendiamo con ansia. Con i sensi di tanta stima”. Ecco la risposta di Avati. “Caro Nicola, che magnifica riflessione ! Grazie per la sua vicinanza e per aver intuito in quanto ( esclusi per ragioni evidenti dal numero ristretto dei consulenti ) attenderanno il film con la matita blu. Comunque la rassicuro : tutto ciò che lei mi rammenta fa parte della mia sceneggiatura. Almeno sotto questo aspetto non la deluderò La abbraccio con amicizia”.