Corruzione, clientelismo, tangenti, voto di scambio. Fenomeni che, in un sistema politico che si stava via via indebolendo, diventarono sempre più rilevanti. In ogni dove, negli anni ’80, inchieste giudiziarie appurarono casi di corruzione, di richieste di tangenti che vedevano coinvolti esponenti politici nazionali e locali. Furono fenomeni così rilevanti da modificare persino il modo con cui, negli anni successivi, si parlò di politica, arrivando, in un’idea ancora oggi molto diffusa, a rappresentare l’intera Prima Repubblica. Come se 40 anni di storia italiana fossero riassumibili solo in questi termini negativi.
Una narrazione che, all’inizio degli anni ’90, accompagnandosi alle inchieste della magistratura, mostrò tutta la sua forza distruttiva, abbattendosi sul già debole e malato sistema politico e colpendolo mortalmente. Checco Zalone la rispolverò nel 2016 in “La Prima Repubblica”, canzone tratta dal film “Quo vado”, in cui, a rappresentare la vecchia e corrotta politica pre-1994 è l’anziano senatore Nicola Binetto (Lino Banfi), con la sua lunga lista di persone a cui ha permesso di ottenere posti di lavoro senza far nulla.
Sull’origine di quei mali della politica nostrana le opinioni divergono. Per alcuni, le cause del degrado che caratterizzò il sistema politico italiano sono da ricercare nella peculiare organizzazione dello Stato, sin da secondo dopoguerra. I due principali partiti, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, erano impegnati in una forte e aspra contrapposizione che rifletteva lo scontro tra Usa e Urss. Il Parlamento era eletto con un sistema proporzionale puro e tutti gli esecutivi nominati dal parlamento erano stati sostenuti dalla Dc, storicamente il partito di maggioranza relativa. Mancava una reale alternanza politica e, al fine di mantenere lo status quo, finanziamento occulto ai partiti politici e un sistema di controllo basato sul voto di scambio e le pratiche clientelari furono strumenti utili a favorire i politici al governo che, occupando posizione di potere, potevano promettere ed effettivamente distribuire favori e risorse pubbliche in cambio di voti e fedeltà.
Un contesto in cui, con l’obiettivo di farsi largo tra Dc e Pci, si inserì il Psi di Craxi, con la sua opera di deideologizzazione e di trasformazione del partito che abbiamo già raccontato. Con la crisi del Pci che seguì la fine del compromesso storico, quella necessità di contrastare il “pericolo rosso” e di mantenere lo status quo si affievolì, dando un forte impulso alle pratiche clientelari e alla corruzione. Con le decrescenti tensioni ideologiche che avevano segnato la politica italiana precedente e con l’affermarsi di una nuova egemonia neoliberista si affermò, infatti, una mentalità più spregiudicata. Le modalità di finanziamento occulto usate per la costruzione del consenso elettorale iniziarono ad essere utilizzate, non più solo per conservare lo status-quo, ma anche per accrescere la forza elettorale di un soggetto politico minoritario, come il Partito Socialista Italiano, che, con Craxi, riuscì a diventare l’ago della bilancia nel Parlamento italiano. E, successivamente, finendo per diventare un partito simbolo di corruzione e malaffare, obiettivo di polemiche politiche e delle invettive di opinione pubblica e di comici come Beppe Grillo. Fu, infatti, dal palco di Fantastico 7, popolare trasmissione di intrattenimento andata in onda nell’86 sulle reti pubbliche, che il comico genovese pronunciò quello che ancora oggi rimane una delle sue più celebri battute. Parlando del viaggio in Cina dell’allora ministro socialista Martelli e del presidente del consiglio Craxi, disse: «La cena in Cina… c’erano tutti i socialisti, con la delegazione, mangiavano… A un certo momento Martelli ha fatto una delle figure più terribili… Ha chiamato Craxi e ha detto: “Ma senti un po’, qua ce n’è un miliardo e son tutti socialisti?”. E Craxi ha detto: “Sì, perché?”. “Ma allora se son tutti socialisti, a chi rubano?».
Ma tutto ciò non basta a spiegare totalmente il fenomeno. In questi termini, sembrerebbe quasi che quello della corruzione e del degrado della politica italiana fosse una peculiarità italiana, cosa che, in realtà, non è vero.
Per comprendere quella commistione tra clientelismo e corruzione che pervase il sistema politico italiano negli anni ’80, arrivando in tutti i livelli di governo e in tutte le regioni, bisogna fare un salto indietro, tra la fine degli anni ’60, con le contestazioni sessantottine, e gli anni ’70. Bisogna tornare all’inizio della crisi dei partiti politici.
Il Sessantotto mise in crisi il movimento operaio e la sua identità, i suoi riti. Emersero nuove problematiche, nuovi bisogni. Anche gli anni ’70 furono un decennio di forti cambiamenti. Cambiò la società, cambiò il modo di vivere e raccontare la politica, cambiarono i temi su cui essa si dovette confrontare. Cambiamenti rapidi che le forze politiche furono in grado di cogliere, provocando uno sfaldamento delle proprie schiere di militanti, delle proprie membership, per dirla con la lingua inglese. E con il venir meno dei militanti, vennero meno anche risorse economiche importanti all’attività politica. Proprio in un momento in cui, con l’avvento di radio e tv private, i costi della comunicazione politica si innalzavano notevolmente.
L’altro tassello necessario a comprendere tutto ciò è la crisi dello stato sociale che già negli anni ’70, con la fine del miracolo economico e gli shock petroliferi, era iniziata. Una crisi abilmente cavalcata dai fautori delle teorie liberiste che mal vedevano la forte presenza statale nella gestione dell’economia. L’indebolimento del welfare state fu uno dei principali motivi della crescente disillusione verso la politica e i suoi protagonisti.
La mancata risposta delle forze di sinistra ai cambiamenti in atto nella società, unita ai fenomeni di corruzione, inevitabili in un debole e malato sistema politico, e al venir meno delle ideologie, aprì il campo alla ristrutturazione capitalistica degli anni ’70 e ‘80, permettendole di sferrare i suoi attacchi al già indebolito welfare state e di imporre una cultura egemone, fondata su individualismo di massa e consumismo.
Mentre i partiti si indebolirono (o, meglio, più che forza, persero legittimità, per dirla come il politologo Piero Ignazi), si fecero largo, nell’opinione pubblica e tra le forze politiche narrazioni che vedevano l’origine dei mali della politica italiana proprio nel regime partitico. Nuove narrazioni populiste che, agganciandosi ad un’antipolitica che era stata sempre presente nella storia italiana, si caratterizzarono per una forte retorica antistatalista che faceva leva sull’insoddisfazione del “popolo”, della “gente comune”. Un antistatalismo che colse quei fenomeni di corruzione per denunciare i protagonisti della politica italiana di inefficienza, bizantinismi, corruzione e autoreferenzialità e promuovere quella nuova ideologia liberista, che si impose negli anni ’80.
L’avvento di Craxi, con i suoi toni antipartitici utili al suo modello di leadership personalistica, diede ulteriore linfa a quell’attacco ai partiti politici.
Non è assolutamente vero, però, che la corruzione della classe politica in Italia fosse più diffusa, rispetto al resto dell’Occidente. Basta leggere, ad esempio, qualche libro di storia politica degli Stati Uniti d’America. Anche oltre l’Atlantico, con largo anticipo rispetto al vecchio continente, nella società cambiò la percezione dei partiti. Da quei fattori di democratizzazione descritti da Alexis De Tocqueville nel suo “Viaggio in America”, ad un certo punto, diventarono macchine politiche al servizio di potenti personaggi politici, che servendosi di rapporti clientelari, patronage, corruzione e spoils system, esercitavano un ferreo controllo sul voto popolare e sulle istituzioni locali e statali, saccheggiando le risorse pubbliche. Organizzazioni pigliatutto prive di valori ideologici e interessate alla mera vittoria, che ostacolavano l’espressione di quelle virtù civiche che loro stessi avevano contribuito ad alimentare. Dopo aver favorito la democratizzazione, diventarono, per l’opinione pubblica statunitense di fine secolo, profondamente antidemocratici.
Anche il risentimento antipolitico era diffuso in tutto l’Occidente ed era sia figlio della crisi dello Stato sociale, sia di un’operazione ideologica di screditamento degli istituti di mediazione (i partiti) e dell’idea stessa di welfare state.
Operazione che, in Italia fu più forte proprio in virtù della forza dei partiti e che era figlia di un sempre crescente neoliberismo che imputava allo Stato sociale di paralizzare le possibilità espansive dell’economia. Secondo l’ideologia neoliberista, alla mano pubblica dovevano sostituirsi le forze sane del mercato, in grado di liberare la cosa pubblica dagli impedimenti derivanti da inefficienza e veti di tipo corporativo.
I partiti iniziarono ad essere visti come luoghi riservati a carrieristi, chiusi e impermeabili alle istanze della società civile, al cui interno si sviluppa il malaffare e lo sperpero di denaro pubblico. Soprattutto dagli anni Ottanta, quando iniziò a venir meno l’ideologia alla base della dialettica politica. Un cocktail ideologico che avvelena, ancora oggi, la politica italiana e che contaminò anche il centro-sinistra, dove il concetto di partito politico è storicamente più radicato. Anche a sinistra, come vedremo, anziché difendere il modello del partito e contrastare l’antipolitica, si fecero proprie queste tesi, dismettendo le vecchie organizzazioni strutturate ed ideologiche ed istituendo nuovi partiti, talvolta personali, per tentare di eguagliare la forza dell’avversario. Il tutto mentre, inevitabilmente, cresceva il disincanto verso una politica vista sempre più come cosa estranea, lontana.
Nell’opinione pubblica si fece sempre più largo l’idea che, alla base della diffusa corruzione, del malaffare, ci fosse l’ingombrante forza dei partiti politici. In realtà era vero l’esatto contrario. Indeboliti, venuto meno il loro potere di controllo, essenziale per vigilare sui fenomeni di corruzione, senza membership e con minori fonti finanziarie, i partiti finirono spesso, pur di sopravvivere, per cedere alle lusinghe del finanziamento illecito.
Il vero problema, dunque, non era la forza dei partiti, che, anzi, in passato era stata una garanzia di controllo. Ma la loro debolezza che, facendo venir meno le possibilità di controllo, aveva favorito il dilagare di fenomeni di corruzione che, invece, in presenza di organizzazioni forti, non sottomesse a clientele e potentati locali, potevano essere più facilmente condannati ed isolati grazie all’attività di vigilanza di una struttura gerarchica salda, con una base di militanti più diffusa. Con la sua “questione morale” il segretario comunista Enrico Berlinguer già nell’80 denunciò una situazione che, negli anni successivi, si sarebbe irrimediabilmente aggravata: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. […] I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. […] Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico».
Fu dall’idea secondo cui l’origine di tutti i mali fosse la presenza stessa dei partiti politici e delle loro strutture ramificate che, dunque, nacquero le teorie sul rafforzamento della leadership e dell’esecutivo, ai danni della massima istituzione della democrazia rappresentativa, il Parlamento, in cui i partiti, appunto, svolgono i propri compiti di rappresentanza. Riflessioni che prepareranno il terreno per l’avvento del partito personale.