Craxi. Un personaggio amato da alcuni, odiato da altri. Grande statista per alcuni, simbolo di corruzione e clientelismo per altri. Ma, al di là delle valutazioni che potremmo avere sulla sua figura, è fuori da ogni dubbio che sia la figura più rappresentativa della politica italiana negli anni ’80.
Fu segretario socialista dal luglio 1976, quando il deludente risultato del Psi alle elezioni politiche portò una svolta all’interno del partito guidato da Francesco De Martino. Una svolta che nasceva dalla necessità di riprendersi da quella dolorosa sconfitta e di recuperare i consensi persi. Anche perché, nel partito, c’era la consapevolezza che, dopo quindici anni di cooperazione governativa con la Dc e trenta di scomoda prossimità con il Pci, il Psi era diventato un partito minoritario, che rischiava di essere stritolato dal compromesso storico tra Dc e Pci.
L’elezione a segretario di Bettino Craxi, esponente della corrente di Pietro Nenni, fu la risposta. Sotto la sua guida, il Psi cambiò non solo identità, ma anche modalità dell’agire politico. Il Psi cambiò volto sotto diversi aspetti.
«Craxi ebbe grandi meriti. Portò il Partito Socialista ad avere molti più consensi. Ad un livello mai raggiunto prima. Fu uno statista e un decisionista, che ebbe a cuore la sovranità italiana, come dimostrò anche l’episodio di Sigonella» ci racconta Franco Matera che, all’epoca era segretario del Partito Socialista e che ricorda bene quella volta in cui il segretario nazionale sarebbe dovuto venire a Bitonto. Era il 12 giugno 1987, due giorni prima delle elezioni politiche. Ultimo giorno di campagna elettorale, con Craxi impegnato in Puglia. Era a Bari quella sera. In una piazza Aldo Moro gremita, dopo l’appuntamento barese, si sarebbe dovuto tenere il suo comizio bitontino, a sostegno del candidato Gennaro Acquaviva. Quest’ultimo aveva preso il posto, in lista, di Gaetano Scamarcio, che, quell’anno, non si candidò.
«La piazza era piena e la gente riempiva anche via Repubblica – ricorda Matera – Era molto atteso, ma, non essendo nel suo programma, Craxi non venne più. Quell’anno perdemmo le elezioni e Acquaviva fu eletto non nel nostro collegio, ma nel leccese».
«Uno dei migliori statisti della storia italiana» aggiunge Michele Coletti, sindaco socialista dall’87 al ’92, che ha avuto modo di partecipare ai congressi socialisti sotto la segreteria craxiana (Milano, Rimini e Bari): «Aveva lungimiranza, visione del futuro, oltre che una grandissima preparazione ottenuta da anni di militanza nel partito. Ma aveva anche una visione moderna del partito, una visione consapevole del momento. La sua era una guida autoritaria. Ed era quello che serviva in un partito minoritario, dilaniato dalle correnti. La sua idea era di una sinistra a guida socialista. Un personaggio scomodo che non le mandava a dire. Difese l’italianità, la sovranità nazionale come dimostrò la forza dimostrata a Sigonella. È una figura che meritava molto di più. Capì benissimo come rendere il Psi autonomo nelle scelte. Tutte le persone che hanno una forte personalità generano amore e odio. Non è mai stato un docile alleato e il suo essere cocciuto gli ha procurato antipatie ed inimicizie anche da parte degli Usa».
Al segretario socialista, nel 2010, l’allora presidente del Consiglio comunale Nicola Tarantino e l’allora consigliere comunale Christian Farella proposero anche l’intitolazione di una strada. Proposta mai attuata.
Craxi orientò la sua attività politica agli obiettivi della sopravvivenza e della costruzione di una nuova identità, contrapposta al Partito Comunista. Sfruttando le difficoltà di collaborazione tra i due partiti del compromesso, utilizzando uno stile aggressivo ed uno spiccato decisionismo, Ghino di Tacco (come era solito firmarsi sul giornale di partito l’Avanti, riprendendo un epiteto dispregiativo affibiatogli da Eugenio Scalfari) volle rigettare le immobili gerarchie tra i partiti e far concorrenza ad entrambi gli avversari, ma soprattutto al Partito Comunista. Come scrisse Alfio Mastropaolo in “Antipolitica. All’origine della crisi italiana”, Craxi, autonomista per convinzione, intravide la possibilità di valorizzare la posizione politica del suo partito, i cui voti, in parlamento, erano indispensabili per costruire qualsiasi maggioranza, puntando da un lato sulle paure della Democrazia Cristiana, in merito alle possibili reazione dei propri elettori per il compromesso con i comunisti, dall’altro sui suoi rapporti con l’Internazionale Socialista, che gli consentivano di compiere una svolta occidentale e atlantista. Una svolta che, in realtà, era cominciata già anni prima, quando, dopo l’intervento sovietico in Ungheria nel ’56, il Psi, critico contro l’iniziativa sovietica, prese sempre più le distanze dal Pci, iniziando un percorso politico che lo portò, nel ’63, ad entrare nel governo con la Dc, durante i primi governi Moro.
Il Psi fece leva anche sulle difficoltà che aveva anche il Pci a giustificare il compromesso con la Dc, tanto da arrivare ad intrecciare un dialogo con i reduci del ’68 e con gli ex esponenti di Lotta Continua.
Sotto la guida craxiana, il Psi modificò gran parte del proprio bagaglio ideologico per inseguire le fasce più promettenti dell’elettorato: ceti emergenti, professionisti e tecnici del terziario avanzato. All’antico bagaglio culturale di sinistra vennero sostituiti tratti ideologici liberali. Una “mutazione genetica”, per usare le parole del segretario comunista Enrico Berlinguer, che si manifestò anche nella mutazione del simbolo del partito (il garofano prese il posto di falce e martello).
Parole d’ordine dell’agire craxiano erano decisione, riforme istituzionali e governabilità, contrapposte alla cauta, lenta e inefficiente mediazione parlamentare. Un decisionismo che volle essere un tentativo di accreditare il partito presso strati moderati che desideravano maggiore stabilità.
Luciano Cafagna, per lo spirito corsaro con cui si incuneò tra Pci e Dc, per la spregiudicatezza della sua politica, definì Craxi il “Francis Drake del socialismo italiano”, paragonandolo allo storico navigatore inglese e descrivendolo come un «animale politico di radicate convinzioni ideologiche, ma rinascimentalmente amorale». Uno spirito che mise in dubbio il diritto dei democristiani a guidare l’esecutivo, tanto da diventare, dall’83 all’87, primo socialista a ricoprire la carica di presidente del Consiglio dei Ministri.
Manifestazione concreta della svolta di Craxi fu anche la vicinanza con il Partito Radicale nella campagna referendaria del 1981. Aldilà degli obiettivi referendari, Craxi e Pannella erano accomunati dalla volontà di dimostrare una mobilità nuova dell’elettorato italiano, trincerato da decenni dietro i grandi partiti di massa, e di scardinare gli assetti della Repubblica e del suo sistema partitico.
La sua esperienza politica si distinse, infatti, per l’insofferenza verso “i bizantinismi e i tatticismi” dei politici e dei partiti, verso un potere corroso, paralizzato e male utilizzato. Verso quello che definì “cretinismo parlamentare”. Ne parlò il 28 settembre ‘79 quando, sull’Avanti, scrisse: «I bizantinismi e i tatticismi in cui si rotolano esponenti politici, partiti e frazioni di partiti appartengono alla categoria del politicismo, mostrano un aspetto di decadenza del sistema o di una parte almeno dei suoi gruppi dirigenti. Quando tutto si riduce alla alchimia delle formule, alla manovra attorno alle combinazioni, alla lotta per un potere in gran parte corroso, paralizzato o male utilizzato, siamo ad un passo dal cretinismo parlamentare e a due passi dalla crisi delle istituzioni».
Toni antipartitici che si inasprirono, diventando plebiscitari e talvolta populisti, quando, dopo la caduta del suo governo nel 1987, Craxi tornò a parlare di una democrazia sequestrata dai partiti e dalle lungaggini parlamentari, giungendo persino ad attribuire alla centralità del Parlamento la responsabilità della limitazione della sovranità popolare e dei poteri dell’autorità.
«Siamo la sola democrazia al mondo in cui la volontà popolare si arresta alle elezioni dei propri rappresentanti in Parlamento. La cosiddetta centralità del parlamento comporta da un lato la riduzione della sovranità popolare e dall’altro una riduzione netta dell’autorità e dei poteri, e quindi dell’efficacia, sospesi alle mutevoli intese d’un rigoglioso pluralismo partitico» scrisse nell’87 nel suo saggio dal titolo “Cresce l’Italia”.
Quella di Craxi fu una leadership personalistica. Non una novità nella storia dell’Italia repubblicana. Anche se, per certi versi, lo fu eccome. Diversamente dalle leadership personalistiche precedenti, da Giannini a Pannella, quella di Craxi si mosse su binari convenzionali e partì dall’interno di un partito tradizionale, come era il Psi. Craxi, infatti, instaurò con l’opinione pubblica un rapporto fortemente carismatico. Curate e spettacolari scenografie gli facevano da sfondo nei congressi socialisti con un modo di esprimersi e una gestualità che, al vignettista Forattini, ricordarono Mussolini. E non solo a lui. Scrive lo storico Salvatore Lupo: «Per sopperire alla debolezza politica e identitaria del proprio partito, Craxi ricercava ostentatamente un rapporto di tipo carismatico con l’opinione pubblica, del tutto differente da quello sobrio e istituzionalizzato dei suoi colleghi: è da ricordare non solo la sfarzosa coreografia a base di piramidi pseudo-egizie e archi pseudo-classici, che fungeva da sfondo dei suoi discorsi nei congressi socialisti, ma anche la sconcertante somiglianza della sua oratoria, della sua stessa gestualità, con quella di Mussolini, subito colta dai disegnatori dell’epoca, e che creò un ponte con il massimo modello carismatico della storia italiana».
Tra le eredità di Bettino Craxi e del suo Psi, il notevole contributo alla creazione del partito personale e leaderistico, basato sul carisma del capo, che si diffonderà maggiormente negli anni successivi e che, a partire da Forza Italia, contagerà, poi, tutti i partiti italiani, che accentueranno il ruolo della leadership a scapito dell’organizzazione.
Il modello craxiano di leadership si contraddistinse anche per la sua efficacia anche in campo mediatico, grazie soprattutto al rapporto simbiotico con Berlusconi e con il suo impero mediatico, impegnato a diffondere l’immagine di un paese «in mutamento, votato all’arricchimento personale e al consumo vistoso», come scrive Rino Genovese in “Che cos’è il berlusconismo”. Un rapporto strategico, di cui Craxi si avvantaggiò a tal punto che la sua fu denominata una politica di “nani e ballerine” (espressione di Rino Formica, esponente di spicco dello stesso partito socialista, che etichettò, con toni spregiativi, l’ambiente umano e politico della dirigenza del suo partito e quella politica spettacolo che portò, nel partito, anche noti personaggi della televisione come Jerry Scotti).
La figura del leader solitario occupava tutta la scena, oscurando le strutture del suo partito, la sua storia, i suoi programmi. Sia organi collegiali, che organismi di base, vennero posti in secondo piano nei processi decisionali.
Ma proprio l’indebolimento della struttura partitica portò il Psi a diventare sempre più preda di potentati e clientele locali. Premesse che portarono il partito ad essere spazzato via dalla bufera di “Mani Pulite”.
Ma non furono solo le inchieste a decretarne il crollo. Anche altri leader europei, storicamente, sono stati oggetto di indagini giudiziarie, senza che ciò abbia causato la dissoluzione dei loro partiti. La causa principale fu la gestione del potere. Fatta piazza pulita di tutte le correnti, che in tanti anni di storia erano state croce, ma anche linfa vitale del Psi, il partito divenne monocratico, personale, e perciò, in assenza di alternative interne, non sopravvisse alla caduta del capo.
«In quel periodo si ridusse il dialogo interno nelle sezioni. Si misero da parte gli ideali per la ricerca del consenso e si avvicinarono, purtroppo, altri interessi» confessa l’allora segretario cittadino Franco Matera che, però sottolinea: «Su Mani Pulite non si è mai fatta vera luce. Nessuno può tirarsi indietro. Nemmeno il Partito Comunista».
Opinione su cui concorda anche Coletti, convinto che le inchieste della magistratura non siano state affatto trasparenti ed oggettive e siano state pilotate: «Craxi non curò molto l’organizzazione, che divenne più permeabile, ma il Psi non fece né più, né meno di quello che fecero gli altri partiti».