Quando tutto era finito, si disse – come se fosse una giustificazione – che l’epidemia aveva provocato la morte di 12 o al massimo 24 persone, mentre i ricoveri in ospedale erano stati quasi 1.000. In realtà, un bilancio preciso manca e, in ogni caso, i numeri non appaiono certo quelli di una catastrofe. Tuttavia in quella fine estate del 1973 a spedire all’improvviso Napoli indietro nel tempo e lontano dal mondo sviluppato è bastata una sola parola, evocatrice di paure ancestrali: colera.
Già, non è uno scherzo. La ex capitale del Regno delle sue Sicilie (ma in realtà ha toccato altre realtà del Mezzogiorno e pure l’intero Stivale) poco meno di 50 anni fa è stata aggredita da un morbo che si pensava fosse stato sconfitto definitivamente, e che tanti cadaveri aveva lasciato nei secoli precedenti. Ma negli anni ‘70, in piena era di progresso tecnologico e scientifico e nel cuore dell’Occidente avanzato, neppure un fantasioso autore di film catastrofisti avrebbe immaginato la trama di una città e del suo hinterland, tra le più densamente popolate dell’Europa, in balia di un male che si riteneva sopravvivesse ormai soltanto in angoli remoti della terra segnati da miseria e sottosviluppo.
Tutto ha inizio il 24 agosto e va avanti per circa due mesi, quando a Torre del Greco (la città dove Giacomo Leopardi è morto nel 1837 proprio di colera) si sono registrati due casi di “gastroenterite acuta“. È stato nei giorni successivi, quando sono arrivati altri casi di ammalati con gli stessi sintomi (diarrea, vomito, crampi alle gambe) che sono stati fugati i residui dubbi. Era colera, ceppo del “vibrio El Tor”. Scoppiato nel 1961 nel Subcontinente indiano nel 1961 e terminato nel 1975 a Odessa, allora nel territorio dell’allora Unione sovietica.
Perché in Italia, allora? La causa è stata individuata nel consumo di cozze importate dalla Tunisia all’interno delle quali si annidava il vibrione, ma il discorso è da approfondire. Perché c’è da dire che Napoli, nel 1973, era una metropoli in cui convivevano strati sociali eterogenei, segnati da profonde disuguaglianze. A un ceto medio impiegatizio e una classe operaia “ufficiale”, radicata nei poli di sviluppo industriali della siderurgia e della metalmeccanica corrispondeva un proletariato marginale e precario impiegato nei settori più disparati. Nel centro storico decine di abitazioni erano in realtà micro officine di una fabbrica diffusa in cui si lavorava senza alcuna garanzia e nessun controllo.
Zone urbane caratterizzate da un alto indice di sovraffollamento e promiscuità, in cui la nocività dell’ambiente si mescolava alla nocività dell’attività produttiva. A tutto questo si devono aggiungere quartieri degradati, condizioni igieniche da terzo mondo, un mare inquinatissimo e un sistema fognario vecchio di secoli inadeguato alle esigenze imposte da una crescita urbanistica spaventosa e incontrollata.
Il contenimento dell’infezione è stata conseguenza della campagna di vaccinazione della popolazione che, per quanto riguarda la sola città di Napoli e l’area metropolitana, ha somministrato all’incirca 1milione e 200mila dosi attraverso una rete di centinaia di centri vaccinali gestiti dalle autorità sanitarie così come da organismi di base, sindacati, partiti e perfino dal personale sanitario della NATO, in quegli anni acquartierata fortemente nel territorio cittadino.
Da una prospettiva storica, l’epidemia di colera del 1973, ha rappresentato una svolta importante per il Mezzogiorno italiano, grazie alla quale si avviò una trasformazione significativa della considerazione politica della società e, in particolar modo, della eterogeneità del lavoro operaio.
E c’è un altro aspetto per nulla secondario: ”allora si è capito il valore della prevenzione”, ha spiegato Giulio Tarro, virologo di fama mondiale, in quei giorni in prima linea, che ha isolato il vibrione.