L’aquila dipinta sul casco, con una “M” stilizzata sulla fronte. M come Mara, la fidanzata conosciuta durante la Targa Florio: lei era una modella e stava facendo un servizio per il giornale “Grazia” a Cefalù. Per chi iniziava ad appassionarsi alle corse nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, la “chiave” per scoprire Ignazio Giunti e subito dopo approfondire la sua vicenda umana ed agonistica, era proprio quel casco così particolare, minaccioso, “definitivo”. Che incuriosiva. Bastava quella scintilla, il casco appunto, per spingersi oltre. A un palmares per nulla povero, nonostante la giovane età. Ma che non si è arricchito per colpa del fato e di un terribile incidente esattamente 50 anni fa.
Già, perché il 10 gennaio 1971 è una delle date più assurde della storia della Formula uno e delle corse in generale. Quel dì ci ha portato via non soltanto una promessa nostrana del mondo delle quattro ruote e della Ferrari, ma allo stesso tempo un campione già affermato con le vetture Turismo, Alfa Romeo e ancora la scuderia del Cavallino rampante.
Ignazio Giunti, nato a Roma in una famiglia nobile nel 1941, dopo essersi messo in luce nelle gare minori, diventa professionista nel 1966, quando l’Alfa Romeo gli affida la “Giulia Gta”, al volante della quale ottiene molteplici vittorie, tra cui il titolo di campione europeo della montagna 1967 nella categoria gran turismo.
Un pilota così brillante non poteva sfuggire a Enzo Ferrari, che nel 1969 lo vuole al volante della sua sport-prototipo, la 512. L’annata è disastrosa per il Cavallino, ma è proprio il pilota romano a regalare l’unico sorriso della stagione. Ed è anche questo acuto, oltre alla grande stima che per lui provava Ferrari, a garantirgli la conferma sulla monoposto di Maranello anche per la stagione 1971. L’ultima, purtroppo, per il pilota 29enne.
Domenica 10 gennaio 1971, allora. Buenos Aires è la prima tappa del Campionato internazionale sport prototipi del 1971, “apripista” del Mondiale marche propriamente detto. Il talento nostrano è in testa, quando l’auto guidata da Jean-Pierre Beltoise rimane senza carburante all’altezza del tornante che immette sul rettilineo dei box. Il pilota francese tenta di spingerla fino ai box (e nessuno glielo impedisce), quando sopraggiungono Mike Parkes e lo stesso Giunti che ne ha preso la scia e si appresta al doppiaggio. Succede però che il pilota britannico riesce a scartare sulla sinistra la monoposto del francese, mentre il pilota italiano non ce la fa e la prende in pieno. La Ferrari prende fuoco immediatamente e lui muore nel rogo con il collo spezzato.
Beltoise, per quel gesto sconsiderato, è squalificato per tre mesi ma quella “macchia” gli rimane impressa addosso per tutta la carriera.
L’incidente ha avuto una enorme risonanza, sia per la popolarità del pilota che per la dinamica assurda con cui ciò è accaduta, rilanciando il dibattito sulla sicurezza delle competizioni automobilistiche, che qualcuno, a fronte dell’ecatombe di quel periodo, chiedeva addirittura di abolire.
“Io penso che in quelle circostanze si sia compiuto per fatalità un tragico destino” si è giustificato Juan Manuel Fangio, cinque volte campione del mondo in Formula uno negli anni ’50, e direttore di gara quella domenica.