Come già accennato nella puntata precedente di questa rubrica, negli anni ’70 si assistette non solo ad un generico aumento del numero dei reati, ma anche ad un’evoluzione della malavita organizzata. Sotto diversi aspetti. Le organizzazioni di stampo mafioso, infatti, si diffondono sempre più, anche in regioni molto lontane da quelle di origine, nel Nord Italia, grazie all’immigrazione e alle nuove povertà create dalla crisi economica dell’inizio di quel decennio, che aveva fornito nuove braccia ad una malavita in espansione. Che approfittò anche per buttarsi in nuovi business, come quello della droga, il cui uso aumentò a dismisura tra i giovani, favorito da alcune frange della contestazione sessantottina che, delle sostanze stupefacenti, fecero uso sin dagli anni ’60.
Una mafia che già in passato aveva mostrato di sapersi adattare ai mutamenti della società e dell’economia. Come successe negli anni ‘50, con la riforma agraria, lo smembramento della grande proprietà terriera e, contemporaneamente, la riduzione del peso economico dell’agricoltura a favore di altri settori economici, l’industrializzazione, l’aumento demografico nelle città, con il conseguente allargamento degli agglomerati urbani. La mafia si trasformò, diventando, da fenomeno prettamente legato all’agricoltura, una realtà presente anche nelle città, in settori economici in espansione, come quello dell’edilizia (fu in questo contesto che, in molte grandi città si consumarono grandi speculazioni edilizie che, in seguito, avrebbero anche contribuito a creare quartieri poveri, destinati a lavoratori, privi di servizi e, specialmente dopo la crisi economica, luoghi di miseria e degrado).
Sfruttando, inoltre, i flussi migratori e i flussi economici, le varie organizzazioni mafiose italiane si espansero anche in altre regioni. Si espansero al nord, favorendo il trasferimento dalle proprie zone di origine di alcuni loro membri e legandosi con il contesto criminale locale. Ad esempio, le indagini su alcuni casi di rapimenti, nella Lombardia degli anni ’70, sottolinearono un grado di penetrazione mafiosa nella regione tale da destare seria preoccupazione.
Sempre all’inizio degli anni ’70, i giornali denunciarono spesso la presenza della mafia, evidenziando, ad esempio, le intimidazioni ai danni di lavoratori meridionali del settore edilizio, o in quello delle operazioni di manutenzione e di pulizia. Lavoratori costretti a sottostare alle richieste, ai ricatti e ai metodi violenti di intermediari abusivi di manodopera (il fenomeno del caporalato, per spiegarci meglio), per poter lavorare.
La malavita operò, si arricchì e si infiltrò nelle regioni settentrionali, quindi, tramite sequestri di persona, l’intermediazione ricattatoria nell’assunzione della manodopera nelle aziende, gestione di locali notturni e mercati ortofrutticoli, traffico di droga. Quest’ultima attività illecita, trovò mercato fiorente e redditizio nelle grandi città settentrionali.
Ma la diffusione della malavita organizzata in nuove regioni non riguardò solamente il Settentrione. Ad essere oggetto della ramificazione delle associazioni mafiose, furono anche regioni meridionali che, fino a quel momento, non avevano una grande presenza di organizzazioni criminali strutturate come la camorra campana, la ‘ndrangheta calabrese o Cosa Nostra siciliana. Regioni come la Puglia, prima, e la Basilicata dopo. Non che, ovviamente non avessero una propria criminalità. Ma questa era per lo più formata da gruppi dediti a delinquenza comune.
Il “grande passo”, in Puglia, lo si ebbe tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, con l’arrivo della nuova camorra organizzata del boss campano Raffaele Cutolo, che volle estendere i propri traffici nella nostra regione per sfruttare la sua posizione geografica ideale, per la vicinanza all’Albania, per attività come il traffico di droga o il contrabbando di sigarette.
«Nata negli anni ’80 come filiazione della camorra, la criminalità organizzata pugliese ha, infatti, ereditato alcuni caratteri “arcaici” delle mafie – come i rituali e i codici di affiliazione – ma in un’ottica d’innovazione e autonomia, favorita anche dall’affermarsi dell’epoca delle politiche neoliberiste, dall’espansione dei mercati (e del corrispettivo allargarsi delle “zone grigie” tra il legale e l’illegale e, più in generale, dall’ideologia del profitto, che avrebbe mutato non solo i volti delle città,, ma i costumi dei cittadini» scrive don Luigi Ciotti alla prefazione del libro “Criminali di Puglia” di Nisio Palmieri.
E per estendersi, La camorra offrì la sua protezione ai gruppi criminali nostrani, fino a quando, a seguito delle vicende giudiziarie che portarono all’arresto di Cutolo, i clan pugliesi furono più liberi dal controllo della camorra. E così, dalle ceneri dell’impero di Cutolo, sorsero nuove organizzazioni di stampo mafioso come la Sacra Corona Unita, la mafia barese, quella garganica.
Organizzazioni nuove, che iniziarono a spartirsi le attività illecite sul territorio. Iniziarono ad uccidere. Iniziarono a scontrarsi tra loro in lunghe e sanguinose faide (che, piccola nota simpatica, in un discorso che simpatico non le è affatto, trovarono anche spazio nella comicità di Toti e Tata che, parodiando la storica serie Rai “La piovra”, portarono su Telenorba “Il Polpo”, storia di un’improbabile quanto divertente lotta tra clan della mala).
Le nuove organizzazioni mafiose pugliesi assorbirono le mentalità di tutte le organizzazioni mafiose delle altre regioni, come sottolineò il pentito Salvatore Annacondia in un’audizione tenutasi il 30 luglio 1993 e pubblicata nel volume “Salvatore Annacondia: storia della mafia del nord barese”: «La malavita pugliese è abbastanza pericolosa ed è molto più avanzata delle altre perché ha assorbito tutte le mentalità, sia della mafia siciliana, sia della ‘ndrangheta calabrese, sia, infine, della camorra campana. La Puglia era un campo aperto a tutti».
Proprio il capoluogo divenne uno dei più grandi mercati della droga, come spiegheremo nella prossima puntata, in cui ci soffermeremo sul fenomeno della diffusione del consumo di droga, sulle sue cause, sui suoi effetti e, soprattutto, sui suoi risvolti politici.
A queste dinamiche, purtroppo, non sfuggì neanche a Bitonto. Del resto, che le grandi organizzazioni mafiose avessero allungato i propri tentacoli anche sul nostro territorio lo si può dedurre anche dal tentativo, fortunatamente non andato in porto, di Totò Riina, di acquistare dei terreni e stabilirsi proprio qui in città. Il “Da Bitonto” raccontò questa storia già quattro anni fa (https://bit.ly/2XEbuxD ), quando, partendo da alcuni fatti accaduti a Valenzano, nell’agosto 2016, sottolineò il rapporto che i mafiosi corleonesi ebbero con Bari e con Bitonto: «Tutto inizia nel 1969, quando Riina, Liggio e altri affiliati mafiosi sono sottoposti, dinanzi alla Corte d’Assise del capoluogo, a un processo con l’accusa di omicidi plurimi, macellazione clandestina e associazione mafiosa. I giudici, però – minacciati qualche giorno prima della sentenza da una lettera fatta recapitare proprio dal boss corleonese – assolvono gli imputati per insufficienza di prove. Riina e Liggio, restano in Puglia e si spostano di qualche chilometro, a Bitonto, dove, almeno inizialmente, alloggiano all'(ei fu) Hotel Nuovo. Nella città dell’olio, Totò u Curtu vorrebbe anche rimanerci, e chiede addirittura la residenza, sostenendo di aver trovato, nel frattempo, un lavoro come commesso dal suo legale di fiducia. Non è tutto, perché sempre in quei giorni, Riina era intenzionato anche ad acquistare un terreno agricolo, non lontano dalla Poligonale. Il 17 giugno 1969, però, i due boss ricevono due fogli di via obbligatori, emessi dal questore di Bari Girolamo Lacquaniti. I due mafiosi, considerati “socialmente pericolosi”, ricevono il divieto di soggiornare a Bitonto e in Puglia per 3 anni. Il Capo dei Capi, allora, torna a Corleone, sua città natale».
Ma, al di là della mera cronaca, quel che qui ci interessa più sottolineare è che con il rafforzarsi delle mafie da un lato e la sempre crescente crisi del sistema politico dall’altro, aumentarono anche i casi di corruzione, dal momento che, in un sistema debole, fatto da partiti che sempre più perdevano centralità e potere di controllo, vedevano la propria membership ridursi in termini numerici e di rilevanza, diventavano liquidi e si affidavano a grandi attrattori di consensi locali, diventava più facile far valere, per le organizzazioni criminali, il proprio peso, far sentire la propria voce. E, dunque, dalla debolezza del sistema partitico che aumenterà il fenomeno della corruzione e non dalla sua forza, come sostenne una narrazione antipartitica che si impose successivamente, contribuendo enormemente alla crisi politica dei primi anni ‘90. E che il sistema partitico avesse iniziato a sgretolarsi lo si vedrà già verso la fine degli anni ’70, come spiegheremo più avanti.