L’Italia, paese di santi, poeti, navigatori ed emigranti. Fin dalla nascita dello stato italiano, il nostro è stato un paese di emigranti. Fin da quel 1861 in cui si ebbe l’Unità d’Italia. Un fenomeno, quello migratorio, che si caratterizza prima come prettamente settentrionale, nel periodo immediatamente successivo all’unificazione, per poi, nell’ultimo ventennio del XIX secolo, coinvolgere anche il Sud Italia, fino alla Prima Guerra Mondiale, che rese pericolosi i viaggi, e all’avvento del fascismo, che bloccò quei flussi migratori ripresi con la fine del conflitto, interrompendo il primo dei tre cicli migratori degli italiani, conosciuto come Grande Emigrazione. I flussi ripresero con la fine della Seconda Guerra Mondiale, che diede inizio al secondo ciclo, quello conosciuto come Migrazione Europea e che si concluse negli anni ’70. Conoscere il fenomeno migratorio, dunque, è fondamentale per comprendere pienamente come la società cambiò, come la politica cambiò. Ed è fondamentale per cogliere il perché dell’avvento di nuove istanze politiche, di nuovi partiti che cominciarono a sorgere tra gli anni ’70 e gli ’80.
Durante la prima fase dell’emigrazione italiana, quella tra ‘800 e ‘900, circa 29 milioni di italiani lasciarono la penisola italica per raggiungere soprattutto il continente americano (sia meridionale che settentrionale), ma anche Asia e Africa. Un fenomeno che riguardò prima gli italiani del nord e poi quelli del sud, spinti dalla povertà, dalla sovrappopolazione e dalla speranza di vita migliore in un mondo che si stava sempre più industrializzando e, specialmente nel meridione, più agricolo, dall’assenza di terre da lavorare. Alla grande massa di italiani che salparono, senza fare più ritorno, verso altri paesi, si devono le folte comunità che ancora esistono in diversi paesi. Basti pensare all’Argentina, dove più della metà della popolazione ha, direttamente o indirettamente discendenze italiane e dove esiste la comunità italiana più grande al mondo dopo quella degli italo-brasiliani (solo al terzo posto ci sono gli italo-statunitensi), come scrisse, su Repubblica, il giornalista ed economista Marcello De Cecco: «Gli italiani, si sa, furono una nazione di emigranti. In molti secoli, si sparsero in tutti e quattro gli angoli della terra. Solo in due paesi, tuttavia, essi costituiscono la maggioranza della popolazione: in Italia e in Argentina».
Anche la città di Bitonto diede un forte contributo a questa prima ondata migratoria, come riportò anche l’enciclopedia Treccani, attraverso la penna di Goffredo Coppola, Carmelo Colamonico, Edgardo Grazia e Saverio La Sorsa, nel 1930: «La sua popolazione non è in considerevole aumento (e figura addirittura in diminuzione fra il 1911 e il 1921), specialmente per il forte contributo che ha dato all’emigrazione: era di 24mila abitanti nel 1861 e raggiungeva quasi i 33mila abitanti nel 1911, mentre nel 1921 scese a 31698».
Caduto il fascismo e finita la Seconda Guerra Mondiale, mentre l’Italia cercava di rialzarsi e di riprendersi dall’immane tragedia vissuta, gli italiani ripresero a viaggiare in cerca di fortuna, dando il via al secondo ciclo, quello più prettamente europeo, durato fino agli anni ’70. Fu una migrazione diversa da quella della prima ondata. Diversa perchè europea, dal momento che la stragrande maggioranza degli emigranti si diresse verso paesi europei, mentre solo una piccola minoranza varcò i confini del vecchio continente. Paesi come il Belgio, la Svizzera, la Francia, la Germania e le aree industrializzate del Nord Europa diventarono le nuove terre promesse di chi voleva sfuggire alla povertà e voleva inseguire la speranza di una vita migliore. E diversa perché controllata, non libera e promossa dai governi dell’epoca, attraverso gli accordi bilaterali tra gli stati europei, come quello con il Belgio, siglato il 20 giugno 1946, con cui l’Italia si impegnava a spedire nel paese europeo, in cambio di 200 kg di carbone al giorno per ogni emigrato, duemila lavoratori a settimana. Lavoratori destinati a scavare nelle miniere (spesso obsolete e piene di gas tossici, tanto che gli incidenti erano frequenti), negli strati più bassi e più pericolosi, per estrarre l’importante risorsa energetica (di cui l’Italia aveva fortemente bisogno) e costretti a vivere in quelli che furono i campi di concentramento costruiti dai tedeschi durante l’invasione del Belgio. Veri e propri schiavi, venduti e mandati in quell’inferno in cambio di carbone. Poverissimi e spesso vittime di pregiudizi da parte della popolazione locale.
Anche con la Germania, nel ’55, fu firmato un accordo simile, promosso dall’Italia che premeva affinchè Bonn (l’allora capitale della Germania Occidentale) impiegasse manodopera italiana nelle proprie industrie, per alleggerire il peso della forte disoccupazione che affliggeva il Belpaese. Una emigrazione che era parte essenziale della politica attuata per far sì che l’Italia, paese in ginocchio, iniziasse il difficile processo di ripresa dell’economia.
Non solo. L’afflusso di lavoratori italiani verso gli altri paesi europei era utile al bilancio statale, favorendo scambi e concessioni reciproci, e allo stemperamento delle tensioni sociali, che permise alla Democrazia Cristiana di rafforzare la sua posizione a svantaggio della sinistra. L’esportazione di manodopera, quindi, fu una precisa scelta politica, una strategia adottata tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50. A segnare la fine di questa prima fase della seconda ondata migratoria furono tre eventi. Il primo fu la crisi dell’industria del carbone belga, incapace di reggere, senza gli aiuti statali, la concorrenza degli altri paesi. Una crisi che si ripercuoteva sulla manutenzione delle miniere, vecchie e pericolose.
Il secondo evento, strettamente collegato al primo, fu il drammatico incidente di Marcinelle, avvenuto l’8 agosto ’56, che costò la vita a 262 persone, di cui ben 136 erano italiane (la gravità della tragedia fu seconda solo al disastro di Monongah, negli Stati Uniti, che, nel 1907 costò la vita a 362 minatori, di cui 171 italiani). L’incidente e il clamore che ne seguì contribuirono ad attenuare i pregiudizi di cui gli italiani erano vittime, dal momento che, in quell’inferno, morirono anche 95 belgi, e ad accendere i riflettori sulle condizioni in cui quei poveri lavoratori erano costretti a lavorare. Costrinse, inoltre, la politica italiana a rivedere quella strategia che aveva mandato in quelle miniere tanti lavoratori come fossero carne da macello, senza pretendere dal Belgio una maggiore sicurezza sul lavoro. Nello stesso anno furono, infatti, sospesi gli accordi. Continuarono ad arrivare immigrati italiani, ma il fenomeno migratorio subì un’importante trasformazione.
Ed è qui che entrò in gioco il terzo evento, il miracolo economico, che mutò profondamente la geografia delle migrazioni, specialmente quella delle aree di provenienza. Se prima interessava tutte le regioni italiane, con il miracolo il fenomeno diventa meridionale, dal momento in cui il Sud fu raggiunto in ritardo dalla crescita economica. Meta degli emigranti meridionali, inoltre, divenne il triangolo industriale compreso tra Milano, Torino e Genova, con le sue industrie siderurgiche e metalmeccaniche. Circa due milioni di persone raggiunsero l’area compresa tra Lombardia, Piemonte e Liguria, tra disoccupati in cerca di impiego nel settore industriale e giovani benestanti per motivi di studio. Ai primi si aggiunsero le famiglie.
Uomini e donne del Mezzogiorno, provenienti da zone povere di Puglia, Calabria, Campania, Basilicata, Sicilia e Sardegna, spinti a partire alla ricerca delle opportunità lavorative offerte dalle fabbriche del Nord, che attraversavano una fase di straordinario sviluppo e che necessitavano di ulteriore manodopera, perché quella locale non bastava. In molti, tra i lettori di questa rubrica, avranno parenti emigrati nel Nord Italia.
Del contributo bitontino all’emigrazione nazionale ed internazionale ne sono testimonianze anche il culto dei Santi Medici e la Basilica a loro dedicata, fatta costruire tra gli anni ’60 e i ’70 per accogliere il numero sempre maggiore di pellegrini, emigrati o discendenti di emigrati, legati ai due santi Anargiri e provenienti da tutto il territorio nazionale e anche da altri stati.
«La Puglia è una grande regione che ha notevoli risorse non utilizzate o scarsamente utilizzate. Esse sono date dalla grande quantità di forza lavoro disoccupata o sottoccupata (circa 400mila unità), dalla terra (si pensi, anzitutto, all’immensa piana del Tavoliere), dalle fonti energetiche, dall’acqua. Vi sono oggettivamente tutte le condizioni per uno sviluppo economico della Puglia e, quindi, per bloccare l’esodo che continua ed in certe zone si intensifica e creare le condizioni, in un arco di tempo non lungo, per la piena occupazione. Purtroppo, la Puglia continua ad essere serbatoio di mano d’opera a buon mercato per i grandi centri del Nord e dell’estero, dissanguandosi e perdendo una delle condizioni essenziali al suo sviluppo, la piena utilizzazione dei suoi lavoratori manuali ed intellettuali. Perchè bisogna tener presente che l’ultima ondata emigratoria non riguarda più soltanto il bracciante, l’edile, il manovale generico, ma interessa una grande massa di giovani, fra i quali non pochi diplomati, studenti, laureati» scriveva il quotidiano comunista l’Unità il 2 aprile 1971.
L’intenso flusso migratorio, unito alla perdita di importanza del settore agricolo che portò anche migrazioni dalla campagna alla città, modificò profondamente l’assetto sociale delle città italiane. Mentre i borghi, i piccoli paesi si svuotarono, nelle grandi metropoli arrivarono grandi masse di lavoratori, in gran parte poveri, relegati in case per nulla agevoli, o in quartieri per lavoratori nati da una domanda edilizia che spesso fu una vera e propria speculazione, dando vita a zone ghetto, senza servizi. Lavoratori pesantemente colpiti, poi, dalla fine del miracolo economico e dalla successiva crisi economica.
L’arrivo di moltitudini di meridionali nelle regioni settentrionali, inoltre, fu accompagnato da notevoli difficoltà e tensioni sociali con i residenti locali, dovute a differenze culturali e identitarie e alle condizioni economiche dei poveri lavoratori del Sud. Difficoltà e tensioni che spesso si trasformarono in fenomeni di razzismo e discriminazione, alimentati, negli anni ’70, anche dall’aumento della criminalità (di cui parleremo domenica prossima) che trasse nuove forze anche dalla grande moltitudine degli immigrati meridionali. Fu, dunque, in questo contesto che, poi, nacquero movimenti e partiti fortemente identitari, regionalisti, che, premendo su quelle tensioni sociali, sulle differenze culturali e sociali, approfittarono per imporsi in un panorama politico già in mutamento, già in crisi, dopo il Sessantotto e i difficili anni ’70. Movimenti e partiti che poi, unendosi, formeranno negli anni ‘80 la Lega Nord.
Proprio dagli anni ’70, comunque, l’intensità del flusso migratorio iniziò ad attenuarsi, per riprendere, in forma molto minore, dopo la crisi economica iniziata nel 2007, che ha dato inizio ad un nuovo ciclo di emigrazioni.