Parliamo, oggi, ancora una volta, di Brigate Rosse, ma non per tornare sull’argomento del terrorismo rosso, ma per raccontare di quella che fu la reazione dello stato italiano che, dopo dieci anni di terrorismo, era deciso a farla finita una volta per tutte con il terrore e con i movimenti che tentavano di sovvertire le istituzioni democratiche.
Diverse furono le iniziative dello stato italiano. I partiti di governo (la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, il Partito Socialdemocratico, il Partito Repubblicano e il Partito Liberale), sostenuti dal Partito Comunista, trovarono un’intesa politica per introdurre nell’ordinamento nazionale leggi utili alla lotta contro i movimenti estremisti. Una lotta che richiedeva nuovi strumenti, per contrastare quella violenza che, negli ultimi anni ’70 e all’inizio del decennio successivo, aveva visto un aumento di agguati, attentati e omicidi. Una frequenza drammatica che rese necessarie misure speciali per le forze dell’ordine.
Gli interventi legislativi, sottoposti anche al vaglio della Corte Costituzionale, rafforzarono i poteri di intervento e le possibilità di uso delle armi da parte forze di polizia.
Già con la legge Reale (n.152 del 22 maggio 1975) si introdussero una serie di misure repressive, estendendo il ricorso alla custodia preventiva, vietando, in luoghi pubblici o aperti al pubblico, l’uso di caschi e di altri strumenti atti a rendere irriconoscibile il volto e garantendo una più ampia facoltà di ricorrere alle armi, da parte delle forze dell’ordine. Legge che suscitò molte polemiche e che fu sottoposta a referendum abrogativo nel ’78, ma che riuscì a sopravvivere ad esso, perché il fronte dei contrari all’abrogazione vinse.
Ma, nel ’78, anno in cui, con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, l’impianto normativo allora in vigore sembrò continuare ad essere inefficace per contenere quella drammatica situazione. Fu così che furono introdotti ancora altri strumenti, altri reati come il “sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione”. E furono creati corpi speciali destinati proprio alla lotta al terrorismo. Questi furono il Gis (Gruppo di intervento speciale) dei carabinieri, il Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza) della polizia e i reparti Svatpi (Scorta Valori Anti Terrorismo Pronto Impiego, in seguito divenuti ATPI) della Guardia di Finanza.
Sempre nel ’78, al generale Carlo Alberto dalla Chiesa furono date ampie responsabilità per il contrasto alle organizzazioni terroristiche. Sotto la sua azione queste ultime subirono diversi colpi che ne accelerarono la sconfitta.
Nell’80 fu emanata la legge Cossiga, che sanciva la possibilità di comminare condanne maggiori per chi fosse stato giudicato colpevole di terrorismo ed estendeva ancora i poteri delle forze dell’ordine. Legge anch’essa sottoposta, l’anno dopo, ad un referendum abrogativo che si rivelò, ancora una volta, fallimentare, non riuscendo nel proprio obiettivo. La drammatica situazione in cui versava l’Italia fece sì, infatti, che queste leggi più repressive incontrassero il favore di forze politiche (anche quelle che, come il Pci, erano state inizialmente contrarie) e opinione pubblica.
Ma questi furono i metodi ufficiali di lotta al terrorismo. Sì, perché, oltre ad essi, il terrorismo, segretamente, fu combattuto, alcune volte, anche con altri metodi che andavano oltre i limiti stabiliti dalla legge. Metodi illegali che sono venuti a galla solo in anni recenti, attraverso testimonianze di chi li subì ma anche di chi li praticò. Stiamo parlando del ricorso a tecniche di tortura. Tecniche come il waterboarding, che consiste nel tenere fermo l’interrogato e nel soffocarlo versandogli addosso dell’acqua salata (la presenza del sale serve a simulare l’annegamento in mare). Vennero utilizzate tra l’81 e l’82, in quella che, dopo quello di Moro, fu uno dei sequestri più eclatanti delle Brigate Rosse, quello del generale statunitense James Lee Dozier, all’epoca comandante Nato nell’Europa meridionale, rapito a Verona il 17 dicembre 1981. Fu liberato il 28 gennaio 1982 dopo un’azione dei Nocs. Il nascondiglio fu ritrovato proprio grazie a quelle torture a cui furono sottoposti alcuni brigatisti arrestati.
Ed è in questo contesto che fu protagonista un bitontino, rimasto ignoto per anni. Era noto con l’inquietante soprannome “Professor De Tormentis”, ma il suo vero nome è Nicola Ciocia. Nato a Bitonto, si trasferì a Napoli negli anni Settanta. Qui diresse prima la squadra mobile e, poi, la sezione interregionale Campania e Molise dell’Ispettorato generale antiterrorismo. E fu anche funzionario dell’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali) squadra speciale creata proprio in funzione anti-Br. Di lui esiste solamente una foto che lo ritrae. Si tratta di una delle famose foto del ritrovamento del cadavere di Moro. È di spalle, dietro Cossiga e dietro l’auto che celava il corpo senza vita del politico pugliese.
Ad accusare il concittadino di metodi brutali furono alcuni dei brigatisti da lui interrogati. Come il foggiano Enrico Triaca, arrestato dieci giorni dopo l’omicidio di Moro con l’accusa di essere un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Triaca venne consegnato nelle mani del Professor De Tormentis.
Raccontò quell’’esperienza alle telecamere della trasmissione “Chi l’ha visto” nel 2012: «Verso sera arriva questo Professor De Tormentis e, guardandomi, mi dice che siamo paesani […].Mi hanno messo le manette dietro la schiena, bendato e sdraiato per terra. Quindi il furgone è partito. Quando siamo arrivati, […] mi hanno portato dentro una stanza. Qui mi hanno spogliato, caricato su un tavolo e legato alle quattro estremità, con la testa e le spalle fuori dal tavolo. E lì è cominciato il trattamento speciale. Un poliziotto si siede sulla pancia. Un altro mi tira su la testa e ottura il naso. E un altro con la cannella dell’acqua. La prima volta si tenta di respirare, ma non si riesce, si manda solo giù acqua. Il corpo reagisce con tentativi di prendere ossigeno. Ci sono delle contrazioni violente».
Il tutto mentre De Tormentis continuava a fare domande e a minacciarlo con frasi come «Qui ci muori».
«Pensi che puoi non uscirne vivo, perchè non conosci bene le intenzioni che hanno, immagini tutto. Ad un certo punto rinunci anche all’idea di respirare, perché tanto sai che non ci riesci. Mandi solo giù acqua» descrisse ancora Triaca, che, successivamente, denunciò questi trattamenti: «Il giorno dopo, massimo due giorni, mi arrivò il mandato di cattura per calunnia».
La magistratura non credette al racconto di Triaca e lo condannò per calunnia, credendo, come ricordò il cronista della trasmissione di Rai3, che la denuncia delle torture fosse l’ultimo tentativo delle Br di attaccare lo stato e colpire le istituzioni democratiche. Ma a confermare le pesanti accuse di Triaca ci pensò Rino Genova, ex commissario di polizia, che condusse le indagini sul sequestro del generale statunitense, e che già aveva raccontato quell’esperienza al giornalista Nicola Rao, il quale le aveva riportate nel suo libro “Colpo al cuore”, edito da Sperling & Kupfer nel 2011. E, prima di Rao, nel libro “Le torture affiorate”, quelli della casa editrice Sensibili alle foglie, fondata dall’ex brigatista Renato Curcio.
Genova ne parlò anche con l’Espresso, che già nell’82 aveva denunciato le torture inflitte ai sequestratori del generale Dozier. Nel 2012 il periodico tornò sull’argomento riportando proprio le parole dell’ex commissario: «Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare».
L’obiettivo della squadra di torturatori era di ottenere informazioni in tutti i modi possibili, ma con l’unico limite di evitare ferite gravi e morti: «Far male agli arrestati senza lasciare il segno».
Genova, nell’intervista rilasciata al periodico, fece esplicitamente il nome vero di De Tormentis, sottolineando le rassicurazioni e le coperture dall’alto, il via libera per quei metodi, affinchè la lotta al terrorismo finisse prima e non durasse “altri 15 anni”: «È Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta squadretta dei quattro dell’Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli specialisti dell’interrogatorio duro, dell’acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all’indomani dell’uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale».
E raccontò le orribili sevizie a cui vennero sottoposti i brigatisti Ruggero Volinia e Elisabetta Arcangeli, tra loro fidanzati: «La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e dopo pochi minuti parla, ci dice dove è tenuto prigioniero il generale Dozier. Il blitz è un successo».
Altri particolari dell’interrogatorio dei due furono rivelati alla trasmissione “Chi l’ha visto”: «Volinia ci condusse dove era il generale solo dopo che lo avevamo brutalmente torturato. Fece un cenno con la mano, affinchè venisse liberato dall’intruglio e disse: “Non ne posso più! Basta! Quello che so vi posso dire!”. Ci fu subito la reazione di De Tormentis che gridando disse: “Tutto ci devi dire! Tutto!”. Nessuno pensava che, tramite un fiancheggiatore si potesse arrivare a Dozier. Noi all’inizio pensavamo fosse una boutade. Ma poi capimmo che diceva il vero, perché era veramente terrorizzato. Purtroppo, è una pagina vergognosa. Però, nessuno di noi può dire di non essere responsabile, anche se abbiamo solo assistito, perché non sapevamo fare il waterboarding».
«Fu steso su questo tavolaccio, con le varie corde, legato. Sia la donna che l’uomo furono messi su questo tavolaccio completamente nudi. Era una forma di spoliazione della loro personalità» descrisse l’ex poliziotto, aggiungendo che, mentre accadeva tutto ciò, gli uomini di De Tormentis impaurivano il torturato con la minaccia che quel trattamento lo avrebbe avuto anche la sua compagna: «Era veramente distrutto dal punto di vista psicologico».
Torniamo all’intervista rilasciata a L’Espresso, in cui Genova aggiunse: «Ma le violenze non finiscono con la liberazione del generale. Il clima è surriscaldato. Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta l’imitazione, il “mano libera per tutti”. Un gruppo di poliziotti della celere, che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo, va nelle stanze dove sono i cinque brigatisti (arrestati durante la liberazione di Dozier, ndr) e li picchia duramente. Un ufficiale della celere, uno di quei giorni, viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a “quello stronzo”, riferendosi a Cesare Di Lenardo, l’unico dei cinque che non collabora con noi. Io non gli dico di no e inizia in quell’attimo la vicenda che ha portato al mio arresto. La mia responsabilità esiste ed è precisa, non aver impedito che il tenente Giancarlo Aralla portasse Di Lenardo fuori dalla caserma. La finta fucilazione e quello che accadde fuori dalla caserma lo sappiamo dalla testimonianza di Di Lenardo. Io rividi il detenuto alle docce. Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice».
La magistratura provò a indagare su quelle torture, ma senza successo. Ad essere arrestati furono solamente lo stesso Genova e i cinque poliziotti che torturarono Di Lenardo: «Io me ne sono restato buono per tutti questi anni perché non volevo far scoppiare lo scandalo, fare arrestare tutti quanti. Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato, che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né come uomo né come poliziotto. L’esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell’Ave Maria».
Sempre nel 2012, il giornalista Fulvio Bufi, per il Corriere della Sera, riuscì ad intervistare il famigerato De Tormentis a Napoli.
«Io sono fascista mussoliniano. Per la legalità» disse lo stesso Ciocia a Bufi che così scrisse: «Lo si capirebbe anche se non lo dicesse, fosse solo per il busto del duce che tiene sulla libreria. Ciocia non ammette esplicitamente di aver praticato la tortura, anche se a dire il contrario non sono soltanto Genova e Triaca: agli atti di inchieste mai portate avanti ci sono le denunce di molti brigatisti, come per esempio Ennio Di Rocco, che con la sua confessione consentì vari arresti tra cui quello di Giovanni Senzani e per questo fu condannato a morte dalle Br e ucciso in carcere».
Davanti al giornalista, così si difese il bitontino, senza ammettere esplicitamente le torture: «Le Br hanno fatto stragi, e avrebbero continuato se non fossero state debellate da un’azione decisa dello stato. Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio. Non serve far male fisicamente. Io in vita mia ho dato solo uno schiaffo a un nappista che non voleva dirmi il suo nome. Non si può affermare che torturavamo i brigatisti, facendo passare noi per macellai e loro per persone inermi».
Non ammise, dunque, esplicitamente le torture, ma, come rilevò Bufi, si abbandonò ad ambigui passaggi che le confermavano: «Di Rocco si mise spontaneamente a disposizione della giustizia. [Triaca] non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano. La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci. Lo Stato si attivò per difendere la democrazia. I macellai erano loro, non noi».