Qualche mese dopo il burrascoso caso di Federico Aldrovandi.
Tre anni prima del terribile omicidio di Stefano Cucchi.
Un ragazzo ammazzato dalle forze dell’ordine. Dopo essere stato picchiato selvaggiamente, ma prima ancora immobilizzato e dopo ancora asfissiato.
Anche in questa circostanza, allora: chi serve lo Stato non ha pietà di un figlio di quello stesso Stato.
Roba da non credere, ma è tutto vero.
Riccardo Rasman – purtroppo nome e cognome meno noti di quelli prima citati – è un trentenne triestino disabile psichico. Il 27 settembre 2006 agenti di polizia gli piombano in casa sfondando la porta di ingresso. Motivo? Secondo i vicini di casa, aveva tirato petardi dalla finestra.
Ma facciamo un passo indietro. È necessario dire che Riccardo frequentava un centro di igiene mentale, soffriva di schizofrenia paranoide e depressione acuta in seguito a episodi di nonnismo subiti durante il servizio militare. Per questo riceveva una pensione. Raramente si fermava a dormire nell’appartamento di via Grego 38 – quello dove abitava – perché preferiva rimanere con la famiglia: la madre Maria, il padre Duilio, la sorella Giuliana. Quella sera era contento perché aveva trovato lavoro come operatore ecologico. Ai genitori aveva detto che sarebbe uscito con amici, ma dalle 20 inizia un incubo. Un drammatico incubo. Un vicino di casa chiama il 113 assicurando che Rasman, forse in preda all’euforia, aveva acceso delle miccette e le stava gettando dalla finestra. Una vicina di casa aggiunge, inoltre, che uno dei petardi le ha fatto sanguinare un orecchio. Mentiva spudoratamente.
Tutte segnalazioni che fanno precipitare le forze dell’ordine a quella casa di un condominio popolare. Alla porta di Riccardo si presentano quattro agenti – tre uomini e una donna – e quattro vigili del fuoco. Riccardo molto probabilmente si impaurisce, non sa cosa fare, e si stende sul letto, e scrive addirittura un biglietto dove c’erano queste parole: “Per favore, per cortesia, vi prego non fatemi del male, non ho fatto niente di male”.
Invece i vigili del fuoco sfondano la porta, e comincia una colluttazione, otto contro uno. Riccardo è gettato a terra, incaprettato, le caviglie legate con filo di ferro. A turno gli salgono sul torace per molti minuti. I vicini lo sentono rantolare e soffrire, poi il silenzio. Muore per arresto respiratorio.
All’arrivo dei sanitari, Rasman è trovato ammanettato con le mani dietro la schiena, le caviglie immobilizzate da filo di ferro, e gravi ferite e segni di imbavagliamento.
La procura di Trieste apre un’inchiesta, affidata proprio ai protagonisti di quella colluttazione. Facile capire che si conclude con una richiesta di archiviazione, perché, secondo il pubblico ministero, gli agenti hanno agito facendo il proprio dovere. Il giudice per le indagini preliminari, però, è di un’altra opinione e non accetta la richiesta, anche perché si scopre ben presto che gli agenti erano a conoscenza che Rasman fosse sotto le cure di un centro mentale, e quindi avrebbero dovuto comportarsi in un’altra maniera.
Si va a processo, allora, e nel 2009 si conclude il primo grado di giudizio: i poliziotti Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi sono condannati a sei mesi per omicidio colposo. Pena confermata in secondo grado e pure in Cassazione, nel dicembre 2011.
Per la giustizia italiana, allora, non potevano non sapere che legare un uomo mani e piedi usando del filo di ferro, e poi ripetutamente schiacciare il torace per immobilizzarlo può avere conseguenze mortali.
Condanna, però, che la famiglia di Riccardo ha sempre considerato irrisoria, e non ha mai capito perché i vigili del fuoco che hanno sfondato la porta dell’appartamento di via Grego 38 siano stati esclusi dal processo.
Nel 2015, inoltre, il ministero dell’Interno e gli stessi tre agenti sono condannati a risarcire 1milione e 200mila euro sempre alla famiglia Rasman.