DEL PFOF. NICOLA FIORINO TUCCI
“Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito in quello abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona, essendo già divulgata per tutto la fama delle sue opere, e massimamente quella parte della sua Comedia, la quale egli intitola Inferno, e esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando egli davanti ad una porta dove più donne sedevano, una di quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse a l’altre: – Donne, vedete colui che va ne l’inferno e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù sono? – Alla quale una dell’altre rispose semplicemente: – In verità tu dèi dir vero: non vedi tu come egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è là giù? – Le quali parole udendo egli dir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza delle donne venivano, piacendogli, e quasi contento che esse in cotale oppinione fossero, sorridendo alquanto, passò avanti. “
(G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante Alighieri, cap. X)
E così il Boccaccio, da quel sommo erudito che fu, nello scrivere la biografia di Dante, rivela un particolare del suo idolo, che rimarrà sconosciuto ai più nel corso dei secoli: l’ Alighieri portava la barba! E che barba se suscitava perfino le battute ironiche di quattro comari comodamente sedute, che, a Verona, al vederlo passare per strada motteggiano sul suo conto: nera e crespa, sì una barba crespa. E cioè una barba “che si presenta con piccole e fitte ondulazioni”, come recita la definizione del Vocabolario Treccani (s. v.): ovvero riccia ed ispida se teniamo conto dello “spessi” con cui è ulteriormente aggettivata dal Boccaccio. Il soggiorno veronese di Dante va, forse, dal 1315 al 1318, quindi egli è sui 50 anni quando quelle comari di cui sopra lo vedono e deridono. La datazione del soggiorno veronese è attendibile se è vero che l’Inferno circolava già dall’aprile 1314, come asserisce il critico Gianfranco Folena, quando il nostro si appressava ormai alla cinquantina. Ed, intorno al 1315, aveva riunito proprio a Verona i suoi tre figli fra i quali Antonia, monacatasi col nome di suor Beatrice a Ravenna, dove morì prima del 1371. E che Boccaccio incontrò almeno due volte: nel 1346 e nel 1354, ottenendo, forse, da lei quelle informazioni necessarie a ricostruire un ritratto, fisico e morale, credibile del famoso genitore. Ma torniamo alla barba di Dante, che costituisce un vero e proprio mistero: perché nell’iconografia ufficiale scompare senza lasciare traccia alcuna? Eppure molti personaggi, coevi o quasi dell’Alighieri, sono ritratti con la barba ufficialmente: fra Jacopone da Todi la porta ed anche Federico II di Svevia e san Francesco d’Assisi. Perché Dante no? Il suo primo presunto ritratto, attribuito a scuola giottesca, datato alla prima metà del XIV sec. ed ancor oggi visibile nel Palazzo dell’Arte dei Giudici e Notai, a Firenze, lo presenta privo di barba come tutti i successivi, però si caratterizza per il colorito: tendente allo scuro (il colore era bruno) e per il naso affilato con una piccola gobba a metà; il ritratto in questione sembra sia stato esemplato rispettando la descrizione di Boccaccio: mascelle grandi, labbro inferiore sporgente, occhi grossi. Il volto di Dante nei secoli successivi viene, però, ridisegnato marcando il naso aquilino e solo un tratto che deve riprodurre la sua interiorità: il labbro inferiore prominente rispetto a quello superiore, ad esprimere il suo sdegno. Contro la patria traditrice. Contro i nemici. Contro l’umanità intera che traligna (per usare un verbo a lui tanto caro). Il ritratto più famoso di Dante (fine del XV sec), quello di Sandro Botticelli, ricalca la descrizione del Boccaccio e quelli precedenti presentando il Poeta che indossa il lucco, una lunga veste maschile di panno rossastro in uso a Firenze nel sec. XIV dal ceto alto, chiusa al collo da grossi ganci, che cadeva a pieghe fino a terra ed aveva aperture laterali per lasciar passare le braccia. E gli pone in testa una corona d’alloro, qualificandolo come poeta laureato di montaliana memoria. Senza barba, cioè. Ci chiediamo: con la barba non si sarebbe dato maggior risalto ad un tratto fondamentale del suo carattere? Maggiore austerità al personaggio? O, forse, la barba era un attributo proprio di rivoluzionari e contestatori della Chiesa come i già citati Jacopone da Todi, Francesco d’Assisi e Federico II di Svevia, così tanto ammirati da Dante? Che, a differenza loro ma suo malgrado, fu subito apprezzato ed osannato dalle gerarchie ecclesiastiche anche per evitare che la sua polemica antipapale sfociasse in atteggiamenti di ribellione ed avversione verso la Chiesa. Insomma, privarlo della barba nella ritrattistica ufficiale (esposta soprattutto nelle chiese) era, forse, lo scotto da fargli pagare per recuperarlo all’ortodossia ufficiale della Chiesa.