Lo sviluppo economico del cosiddetto “Trentennio Glorioso”, in Occidente, si era fondato su una concezione basata sulla possibilità di un progresso sostanzialmente illimitato, che non considerava in alcun modo le conseguenze ambientali.
Ma già dagli anni ’60 iniziò a diffondersi la consapevolezza dei limiti di quel modello di sviluppo. Nacquero i primi dibattiti politici sugli effetti inquinanti dello sviluppo industriale, ci furono le prime manifestazioni, le prime riflessioni, le prime richieste di una legislazione che fosse più attenta alla preservazione dell’ambiente.
Anche in precedenza, ovviamente, c’erano stati movimenti ecologisti. Già verso la metà del XIX secolo sorsero, in Europa, i primi gruppi che paventavano i limiti e i pericoli dello sviluppo industriale e di un’economia basata su di esso, specialmente in Inghilterra, che in quegli anni viveva la fase cruciale della sua industrializzazione. Dal Regno Unito, poi, questi gruppi si diffusero in tutta Europa, favoriti anche dal fatto che il nuovo nascente modello economico e il progresso tecnologico stavano profondamente mutando i tradizionali stili di vita e il rapporto tra uomo e natura.
A queste nuove istanze ecologiste si affiancava il pensiero marxista, critico verso il sistema capitalista, con punti di incontro ma anche di divergenza con gli ecologisti, che non erano interessati tanto all’eguale distribuzione delle risorse, ma criticavano dalle fondamenta un sistema colpevole di aver sconvolto gli antichi metodi di produzione meno invasivi per la natura. In ogni caso, comunque, parliamo di gruppi dall’influenza molto limitata.
Le due guerre mondiali annullarono il dibattito ambientalista in tutta Europa. Per avere una minima idea di come il dibattito ecologista fosse praticamente assente prima degli anni ’60, basta fare una ricerca sugli archivi dei giornali. Prendiamo, per ovvi motivi di vicinanza territoriale, la Gazzetta del Mezzogiorno. Tra il 1940 e il 1960, la parola “ecologia” è citata solo 20 volte, in contesti, peraltro, diversi. Nel ventennio successivo, lo stesso termine compare oltre 2mila volte tra le pagine del quotidiano.
O, ancora, si può guardare la vicenda dell’Ilva di Taranto. In un film documentario, dal titolo “Il pianeta acciaio” del 1962, quando l’azienda siderurgica stava sorgendo, si salutava la nascita del complesso come un’iniezione di sangue, un’esplosione di forza, una carica di vita, «un rimedio contro l’immobilismo degli ulivi, lì dai tempi di Platone e Archimede, un immobilismo che significa morte, miseria, desolazione, sonnolenza».
Fu necessario, infatti, attendere la fine del periodo di crescita che seguì alla Seconda Guerra Mondiale per ridare vigore negli anni Sessanta all’ambientalismo, che tra gli anni ’60 e i ’70, riprese a riunirsi in associazioni prima (nel ’61 nacque il Wwf, nel ’71 Greenpeace, per citare le più famose) poi, ad organizzarsi politicamente, anche approfittando di una nascente crisi dei partiti di massa e delle ideologie. Iniziarono a sorgere partiti che non si occupavano più di ampi e strutturati impianti programmatici, sulla base di un’ideologia che abbracciava diversi temi, ma che perseguivano un solo obiettivo. Come, ad esempio, l’ambientalismo. Iniziavano a nascere i cosiddetti movimenti e partiti “single-issue”. Iniziarono a nascere, in tutto il mondo, i primi partiti verdi (in Italia dovremo attendere il 1985). Ma parleremo più avanti di questa nuova tipologia di partito e delle sue conseguenze nel dibattito politico, limitandoci, oggi, al solo tema dell’ambientalismo e alla sua diffusione nell’agenda politica italiana.
Nel Belpaese, la coscienza ambientalista ebbe una grande spinta dopo la pubblicazione, nel ‘72, del “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, da parte dell’associazione non governativa “Club di Roma”. Un documento che paventava pericoli per l’ecosistema terrestre e per l’uomo, causati dall’aumento demografico e dallo sfruttamento delle risorse naturali legato al sistema economico in vigore. Anche in Italia, dunque, si avvia una nuova fase dell’ecologismo, favorita dalla consapevolezza che la crescita infinita che si credeva possibile durante il boom economico era un’illusione, come aveva anche dimostrato lo shock petrolifero e la crisi economica della prima parte del decennio. La particolare situazione economica e sociale, anzi, portò i movimenti ambientalisti ad estendere la loro area di interessi e a criticare proprio l’idea precedente di sviluppo e quell’idea di modernità che si era imposta a partire dagli anni ‘50.
Si criticò l’economia basata sui consumi di massa e la diffusione incontrollata, nelle città, dell’automobile che, nell’opinione pubblica, era stato il simbolo del boom economico. Si criticò la speculazione immobiliare, nata dal bisogno di nuove abitazioni per chi, dalla campagna, si trasferiva in città, aveva provocato danni irreversibili all’assetto delle città e del territorio, portando alla nascita incontrollata di periferie urbane che, spesso, finiranno anche per essere luoghi di degrado e povertà. Si iniziò a criticare il turismo di massa, che era stato un altro simbolo della crescita economica italiana ed occidentale, e a lottare per la salvaguardia delle specie animali e vegetali, delle bellezze naturali. La protesta ecologista si unì, nella lotta al nucleare, anche a quella pacifista. A tutto ciò contribuirono anche numerosi incidenti che ebbero gravissime ripercussioni ambientali (naufragi delle petroliere e, più tardi, l’incidente nucleare di Three Miles Island, i disastri di Bhopal e Chernobyl).
La protesta ecologista si inserì in quella grande ondata di contestazione che fu il cosiddetto Sessantotto, proseguendo ed intensificandosi nel decennio successivo. Specialmente a sinistra, accompagnandosi, ancora una volta, ad una critica al sistema capitalista, alle sue storture e alla sua diffusione a livello globale attraverso una sempre maggiore globalizzazione.
Fu, infatti, dall’ambiente dei circoli Arci che, nell’80, nacque Legambiente, nonostante, in seguito, abbia tentato sempre più di depoliticizzarsi e di rendersi autonoma da associazioni politiche.
«Non siamo mai stati vicini a partiti politici, nei nostri incontri non abbiamo mai parlato di temi che riguardassero strettamente la politica» ci tiene, infatti, a ribadire il professor Silvio Vacca, che, a metà degli anni ’90, istituì a Bitonto, per la prima volta nella storia cittadina, un circolo di Legambiente: «Eravamo in tanti. Il nostro era un impegno civico, affrontammo diversi problemi, partecipammo a diverse campagne, come quella contro la caccia, contro i pesticidi, per la pulizia delle spiagge, per la riqualificazione del Bosco di Bitonto».
Furono diverse le correnti della sinistra ecologista. E una delle principali figure fu Giorgio Nebbia, bolognese, ma docente all’università di Bari. Fu deputato, durante la IX legislatura (1983-1987) per la sinistra indipendente e fu l’autore, nell’85, di una proposta per la restituzione dei suoli ad uso civile delle aree che, nei primi anni ’60, ospitavano i missili Jupiter (una di esse, ricordiamo, si trova tra Mariotto e Altamura e ne abbiamo già parlato nelle precedenti puntate di questa rubrica), impedire la completa distruzione dei siti e istituire degli itinerari, una sorta di “museo diffuso della memoria” al fine di promuovere pace, convivenza e sviluppo sostenibile.
Ma non solo a sinistra nacquero gruppi ambientalisti. Oltre a gruppi che non avevano alcuna dichiarata connotazione politica, nacquero correnti ecologiste dall’ideologia liberale e anche di destra. Dell’ambientalismo di destra, in Italia, è figlia l’associazione Fare Verde, nata a Roma nell’86 dal Fronte della Gioventù, la sezione giovanile del Movimento Sociale Italiano.
A destra, a cavallo tra gli anni ‘70 e ’80, fu Pino Rauti ad aprire importanti riflessioni sull’argomento, attraverso i Gre, Gruppi di Ricerca Ecologica, fondati da Rutilio Sermonti e paralleli al Msi, che promuovevano un maggiore impegno in tema ambientale. Da quell’esperienza e sotto la spinta del clamore causato dall’incidente di Chernobyl, dunque, nacque Fare Verde.
«L’ecologismo di destra nacque, sul finire degli anni ’70, nell’ambiente che ha come punto di riferimento Pino Rauti e che privilegia temi culturalmente evoluti come la metapolitica, l’ambientalismo e la mitologia nordica, nonché la fantasy di R.R. Tolkien. Contestato all’interno del Msi, dagli esponenti più tradizionalisti, non è stato capito né analizzato, finendo per essere un motivo fondamentale nella rottura determinatasi nel partito. La componente rautiana, minoritaria nel Msi, diventò sempre più ambientalista, rivendicando e recuperando l’attenzione che già il fascismo aveva dato alla natura e all’ambiente con la festa degli alberi, le bonifiche, le leggi sulla tutela del paesaggio e della natura e l’istituzione dei parchi statali. Dal ’77 al ’92 si intensificarono le tendenze e le manifestazioni ambientaliste dell’area di destra: i primi Campi Hobbit, il nascere dei Gruppi di Ricerca Ecologica, la diffusione di riviste di un certo spessore culturale, quali Dimensione Ambiente e Linea, che permettono a tanti giovani di maturare scelte politiche e, soprattutto, metapolitiche molto forti e contestatrici» spiega Beppe Cazzolla, che, all’inizio degli anni ’90, fondò la sezione locale di Fare Verde, che è stata ed è molto attiva: «A Bitonto, dove il Msi, prima, e Alleanza Nazionale, dopo, non condividono l’ecologismo e l’ambientalismo di tendenza rautiana, si ebbero sporadiche manifestazioni, dovute a singoli soggetti che orbitavano nell’area di destra ma ne rifiutavano la solita politica».
L’inaugurazione avvenne nel ’92, alla presenza del presidente e fondatore Paolo Colli, ricordato così da Cazzolla: «Colli portava un linguaggio nuovo e poneva all’orizzonte una vera e propria rivoluzione culturale e ambientale. Il tema dell’ambiente era nuovo, ma era una sfida. Spesso ci si confrontava con altri amici “a sinistra”. Il nostro essere ambientalisti è sempre stato, per loro, una spina che si conficcava lentamente nella loro convinzione di avere il monopolio su queste tematiche. Di quel periodo ricordiamo i costanti interventi su alcuni periodici interni quali Nuovi Orientamenti e Libera Mente, una mostra fotografica dedicata al Bosco di Bitonto e la raccolta di oltre 3mila firme per attivare una pista ciclabile nelle campagne tra Bitonto e Palombaio, che sortirono solo interesse e curiosità tra i cittadini, ma non attenzione da parte dell’amministrazione».
Le divergenze ideologiche tra i diversi gruppi ambientalisti, ad ogni modo, si sono nel tempo affievolite e perse, anche per il venir meno dei partiti di riferimento: «All’epoca, rispetto ad oggi, era più difficile fare rete, essendo molto forte l’identità partitica ed ideologica. Fare Verde era etichettata come fascista, ma, allo stesso tempo, persino nel Msi, eravamo una componente minoritaria spesso derisa e tacciata di parlare di temi di sinistra».