Prima di parlare di come si schierò Bitonto, al referendum del ’74 sul divorzio, è utile, oggi, fare un passo indietro, per comprendere come si giunse alla prima consultazione referendaria della storia repubblicana (se si esclude il referendum istituzionale per scegliere tra monarchia e repubblica). Sì, perché, quando, diverse puntate fa, abbiamo elencato i diversi tipi di appuntamenti elettorali previsti dall’ordinamento italiano, ne abbiamo tralasciato uno: il referendum, appunto. Strumento di democrazia diretta con cui si chiede agli elettori che lascia agli elettori la facoltà di pronunciarsi direttamente, senza l’intermediazione di assemblee elette, su un tema specifico.
Non lo abbiamo saltato per dimenticanza, ma perché, nei primi trenta anni di repubblica, lo strumento referendario non fu utilizzato. Lunga fu, infatti, la strada per la sua attuazione. Nonostante sia espressamente previsto dalla Costituzione del ’46, che ammette, all’articolo 75, il referendum abrogativo, all’articolo 138 quello per la revisione di leggi costituzionali e, all’articolo 132, i referendum sulla fusione di regioni esistenti, sulla creazione di nuove, e sul passaggio di una provincia o di un comune da una regione ad un’altra. Oltre all’articolo 123 che sancisce la facoltà delle regioni di regolare l’esercizio di referendum sui propri provvedimenti amministrativi. Altri referendum, nei comuni e nelle province, sono, infine, previsti da fonti legislative sub-costituzionali. Il referendum propositivo e quello deliberativo non sono previsti, invece, dalla carta costituzionale e dagli statuti degli enti locali.
Oltre alla Costituzione, a regolare l’utilizzo del referendum sono, poi, le sentenze della Corte costituzionale. Oltre a successive modifiche costituzionali che hanno permesso l’introduzione di nuove tipologie.
La principale fonte legislativa italiana, dunque, prevedeva sin dall’inizio la possibilità di ricorrere all’iniziativa referendaria. Da, dal ’46 al ’74, quella possibilità rimase solo sulla carta. Di referendum si era parlato solamente nel ’53, quando, in occasione della legge elettorale maggioritaria detta “legge truffa”, comunisti e socialisti cercarono di bloccarne l’approvazione in Parlamento proponendo un referendum popolare. Ma la proposta fu respinta da Alcide De Gasperi e la legge fu approvata. Di referendum non si parlò più per molto tempo e lo strumento fu oggetti di diatriba tra diverse scuole di pensiero. Tra chi lo vedeva come una possibilità di maggiore partecipazione dei cittadini e chi temeva i rischi di deriva plebiscitaria e populistica.
La Democrazia Cristiana, inoltre, spaventata dalla possibilità di vedere ostacolata la sua egemonia a vantaggio dei comunisti, negli anni successivi al secondo dopoguerra, ostacolò l’attuazione dello strumento referendario. Ed è soprattutto questo il motivo per cui lo strumento referendario viene applicato con venticinque anni di ritardo. Una motivazione che, come abbiamo visto, causò anche il ritardo nell’attuazione delle regioni, che, per molti, era fonte di paura, dal momento che si temeva che, nelle regioni dove più forte era il Pci, specialmente nell’Italia settentrionale, avrebbero prevalso i comunisti.
Fu solo con la legge 352 del 1970 che fu possibile l’attuazione, nell’ordinamento italiano, degli articoli già citati della Costituzione. E la prima occasione si presentò dopo l’approvazione della legge Fortuna Baslini, che, nel ’70, aveva introdotto la possibilità di divorziare. Un argomento che aveva, da sempre, visto la società italiana profondamente divisa. Sin dal XIX secolo.
Ironia della sorte, a promuovere lo strumento referendario per eliminare il diritto al divorzio dalle leggi italiane, furono proprio coloro che, precedentemente, avevano ostacolato l’attuazione del referendum: i cattolici e, quindi, la Democrazia Cristiana.
Il partito cattolico, infatti, avanzò dubbi sulla rappresentatività della Fortuna Baslini, sostenendo che, invece, la maggioranza del paese fosse antidivorzista.
Tesi illustrate a chiusura della campagna elettorale per il referendum del ’74, dal senatore Vito Rosa a Bitonto: «Sottoporre la legge sul divorzio alla verifica della consultazione popolare diretta si è reso necessario per motivi di forma e di sostanza. Da un lato, infatti, bisogna considerare che, a suo tempo, la legge Fortuna Baslini fu approvata a maggioranza parlamentare estremamente ridotta, tale da far legittimamente sorgere riserve sulla effettiva rappresentatività, da parte di tale maggioranza, della volontà della nazione, tanto più se si tiene presente che le successive elezioni politiche hanno mandato in Parlamento una maggioranza antidivorzista. In secondo luogo, era necessario che tutto il popolo si pronunciasse su di un argomento così delicato».
Nel gennaio ’71, dunque, fu depositata, alla Corte di Cassazione, la richiesta di indire il primo referendum abrogativo, da parte di un fronte antidivorzista riunito in un “Comitato nazionale per il referendum sul divorzio”, presieduto dal giurista cattolico Gabrio Lombardi e sostenuto da Azione Cattolica, Cei, da gran parte della Dc, dal Movimento Sociale Italiano e dai monarchici. Ad aiutarli, nel raccogliere oltre 1 milione e 300mila firme, furono anche alcune delle forze avversarie a favore del divorzio, come la Lega Italiana per il Divorzio, il Partito Radicale e il Partito Socialista, che vollero fare in modo che si potesse, in questo modo, aprire un dibattito nazionale sul tema non solo del divorzio, ma anche delle libertà individuali, sulle ingerenze vaticane sulla laicità dello Stato. Un atteggiamento che vide lo scetticismo del resto del fronte divorzista, dai repubblicani, ai socialdemocratici, dai liberali ai comunisti.
Il referendum del ’74 segnò un punto di svolta nella storia d’Italia. Non solo perché sancì definitivamente, attraverso la vittoria del “no”, che la società italiana stava mutando. Ma anche perché dimostrò come a cambiare erano anche le modalità dell’azione politica che, da quel momento in poi, iniziò ad utilizzare sempre più lo strumento referendario. Finendo anche, secondo alcuni, con l’abusarne.