Questa prima domenica di luglio vi portiamo nella Gran Bretagna di fine ‘800. Laddove, ovviamente, tutto era diverso ma differente era anche il gioco del calcio. Era tale, per dirla in una sola parola. I giocatori non erano pagati per andare dietro al pallone, la figura (ingombrante e predominante) del procuratore non era contemplata nei vocabolari, e chi scendeva in campo non erano affatto giocatori di professione, ma gli stessi operai che guadagnavano una miseria alla fine mese spaccandosi la schiena nelle fabbriche.
Succedeva, questo, allora: fino al 1879, il calcio apparteneva esclusivamente a quella nobiltà che lo aveva ideato e codificato: certo, esistevano altre realtà locali di rilievo nel nord operaio, ma nessuna poteva reggere al confronto con chi era nato in una buona famiglia, poteva nutrirsi nel modo migliore e senza affannarsi in lavori usuranti ma capaci di mettere insieme il pranzo con la cena. Quando si arrivava al momento della verità, non esisteva confronto tra le squadre delle Midlands o del nord rispetto a quelle londinesi, i cui giocatori erano atleticamente dei prodigi e si sentivano inoltre di godere anche nello sport di quella superiorità “genetica” ricevuta in dono dal destino.
Poi, però, qualcosa cambia. E muta perché dobbiamo citare qualche nome fondamentale per la genesi del calcio moderno. Arthur Kinnaird, per esempio. Una stella assoluta, ispirazione per tanti ragazzini londinesi che si stavano innamorando di quella disciplina in ascesa e che lo seguivano mentre raggiungeva il campo di gioco, dove immancabilmente avrebbe finito per primeggiare. Campione scolastico di tennis, canoa e corsa, si era avvicinato al football fin dalla sua nascita, avvenuta quando aveva appena 16 anni, ma se fuori dal campo era un gentiluomo, una volta dentro non accettava la sconfitta e utilizzava qualunque mezzo per ottenerla. Anche gli scontri fisici con gli avversari. E ben presto va indossare la casacca degli “Old Etonians”, piena zeppa di studenti.
Nel 1879, appunto, questa compagine affronta, nella competizione britannica più importante, la Fa Cup, una squadra sconosciuta. Il “Darwen”, formato sì da un gruppo di operai, ma il cui presidente aveva pagato – quindi, fatto una cosa illegale per l’epoca – due giocatori provenienti dalla Scozia. Chi sono? James Love, attaccante pieno zeppo di debiti, e soprattutto Fergus Suter, difensore che sapeva leggere le partite come pochi ed era capace, cosa assolutamente inusuale all’epoca, di impostare il gioco dalle retrovie, ma che cercava di sostenere la famiglia facendo il tagliapietre. Ma una volta vestita la casacca, era soltanto un calciatore e nulla più.
Ecco perché, allora, il primo calciatore professionista della storia del calcio. Perché è umanamente risaputo che c’è stato un mondo del pallone prima di Suter e un mondo del pallone post Suter. E Kinnaird è stato un altro attore protagonista in questo spartiacque. In un calcio estremamente fisico come quello dei pionieri del football, c’era un’altra cosa da aggiungere. Il tagliapietre scozzese spiccava per il fisico esile, quasi minuto, che portava spesso molti avversari a sottovalutarlo, ma che erano anticipati senza pietà da un difensore scaltro come pochi e che sapeva trattare il pallone come un attaccante e giocava sempre di anticipo.
Arthur Kinnaird e Fergus Suter si scontrano per la prima volta nei quarti di finale della FA Cup di quell’anno, dando vita a una storia che avrebbe cambiato il volto del gioco che tutti oggi conosciamo per sempre.
Una storia che Netflix ha deciso di raccontare con la miniserie televisiva dal titolo “The English game”.