Parlando delle elezioni del 1970, nel precedente appuntamento di questa rubrica, abbiamo accennato al dibattito che precedette le prime elezioni regionali, che si tennero nel giugno del ’70. E abbiamo anche ricordato come già in occasione della campagna elettorale per le politiche del 1963, durante un’assemblea dei giovani della Democrazia Cristiana tenutasi a Bitonto, Renato Dell’Andro, candidato per la Camera dei Deputati, spiegò perché non fosse ancora il momento di dare il via alla nascita delle regioni: «L’ordinamento regionale va attuato. Naturalmente non è possibile una simile opera in pochissimo mesi. Soprattutto è da considerare come non sia questo esattamente il momento di attuare le regioni, in quanto, al presente comprometterebbero il principio democratico che sta alla base. L’attuazione delle regioni è prevista dagli articoli della Carta costituzionale, ma l’applicazione dei singoli articoli deve compiersi in armonia con il citato fondamentale principio democratico. È quindi necessario attendere che scompaia il pericolo di veder compromesso questo principio, perché si possa dar vita all’ordinamento regionale».
Introdotte, ricordiamo, nell’ordinamento giuridico italiano con la Costituzione del 1948, che agli articoli 114 e 115 prevede, rispettivamente che «la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni» e che «le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione», nel primo ventennio di Italia repubblicana non furono attuate. Infatti, nonostante la previsione costituzionale, prima del 1970, le regioni italiane non furono varate norme che permettessero loro di funzionare, a partire dalla disciplina dell’elezione del consiglio regionale. Un’inerzia motivata principalmente per ragioni politiche. Tra le ragioni, ci fu, infatti, la ritrosia del principale partito di governo, la Democrazia Cristiana, che aveva sempre temuto che, in alcune regioni italiane, potessero vincere i partiti di sinistra, ostacolando il governo centrale. Soprattutto nel nord, nelle regioni in cui il Partito Comunista Italiano era più forte e dove le spinte regionaliste erano più insistenti, a partire dall’Emilia Romagna.
Fu necessario attendere il ‘68 per avere le prime leggi che disciplinassero l’elezione dei consigli regionali e attribuissero alle regioni competenze legislative e amministrative. Del 1970 fu la legge che le finanziava e che desse il semaforo verde alle prime elezioni giugno dello stesso anno.
Tutto ciò avvenne in un momento storico in cui iniziavano a sorgere e a risorgere, in Italia, vecchi e nuovi squilibri, che riguardavano sia l’assetto del territorio che i servizi sociali, spesso carenti o assenti, specialmente con lo spegnersi del miracolo economico degli anni ’50 e ‘60. Si verificarono quelli che, per Ingrao, erano problemi che non potevano più essere affrontati né a livello municipale, né con gli schemi del vecchio Stato centralizzato e ministeriale. La riforma regionale tentava, cioè, di porre rimedio al sorgere di divergenze che dividevano tra loro le diverse aree della penisola, trasformandola in tante piattaforme localistiche. Un problema che rischiava di ostacolare la programmazione efficace dell’intervento pubblico.
Dopo essere stata avversata, quindi, per la prima volta la nascita del nuovo istituto fu sostenuta non più solamente dalla sinistra socialista e comunista, ma anche da importanti gruppi della maggioranza governativa di centro-sinistra, dando, quindi, nuovo slancio al progetto.
Attorno alla nascita dell’ente regionale ci fu un ampio dibattito, tra favorevoli e contrari. Un dibattito che fu assoluto protagonista nella campagna elettorale del ’70, anche nelle piazze bitontine, in occasione di assemblee e comizi.
In quell’occasione, a salutare con favore furono i democristiani. Per il senatore Vito Rosa, intervenuto ad un’assemblea di partito la nascita dell’ente sarebbe stata «un nuovo Risorgimento per una coscienza del popolo italiano».
«Ora si combatterà la vera battaglia per l’affermazione definitiva della libertà e della democrazia – disse Rosa ai democristiani bitontini – Assolveranno ad un importante compito quale quello di snellire, risolvere determinati problemi con la partecipazione e la responsabilità del popolo. Essa sarà il lievito perché la democrazia diventi una sostanza: costituirà un motivo d’interesse per il popolo meridionale e servirà ad eliminare il divario fra Nord e Sud. I nemici delle regioni accreditano falsamente l’ipotesi secondo cui con esse si romperà l’unità del popolo italiano. È una menzogna».
A polemizzare contro le regioni, infatti, era soprattutto la destra, vedendoci un salto nel buio e un attentato all’unità della patria.
Sempre per la Dc, per l’onorevole Antonio Laforgia, intervenuto in comizio, il nuovo istituto non era una mera avventura ma «un formidabile strumento di democrazia, di autogoverno, di efficienza e di rinnovamento dello Stato». Uno strumento figlio dell’idea regionalistica di Sturzo e De Gasperi, ricordò il deputato, smentendo quei critici che accusavano lo scudo crociare di approvare le regioni solo per le pressioni dei partiti di sinistra e dei comunisti, in particolare. Per Laforgia, le regioni erano «patrimonio della nostra migliore tradizione intesa a dare all’unità del Paese una forza effettiva, liberandola dal centralismo monopolista che indebolisce lo Stato, allontanando sempre più il cittadino, con la massa dei suoi problemi e delle sue necessità, dal potere pubblico».
«Non saranno un salto nel buio, perché i poteri dei nuovi consigli sono ben definiti sia dalla Costituzione, che dalla legge istitutiva delle Regioni. […] Ma non lo saranno anche perché con molta più responsabilità, i nuovi consigli regionali potranno affrontare direttamente i problemi, sulla scorta di tutta la documentazione che i vari comitati regionali per la programmazione hanno elaborato in questi anni» conclude quello che, di lì a breve, dall’ottobre ’70 al gennaio ’71, sarebbe diventato sindaco di Bari.
Favorevole ad un nuovo livello di governo, intermedio tra provincia e stato centrale, era la sinistra. Per il Psi fu l’onorevole Beniamino Finocchiaro ad esprimersi sull’argomento, paventando il rischio di un ulteriore rinvio, «con tutto ciò che ne consegue sul piano della lotta all’autoritarismo, alla struttura piramidale dello Stato, ai processi corruttivi ancora in atto, agli squilibri territoriali», e sostenendo che «il nuovo istituto potrà costituire un’occasione storica per rimediare al fallimento della Programmazione così come è stata concepita e attuata sinora e, soprattutto, per avviarsi verso il superamento del divario fra Nord e Sud, che, invece, si è andato allargando fino a questo momento».
Forti critiche, invece, in una lettera inviata alla Gazzetta del Mezzogiorno e pubblicata il 14 maggio, furono espresse da Vincenzo Fiore, all’epoca presidente dell’Azione Cattolica di Mariotto: «È estremamente pericoloso, dopo una crisi fra le più travagliate dal ’45 ad oggi e con un governo che non ha ricevuto assicurazioni da nessuno circa la sua validità dal 7 giugno, procedere ad un atto. Il più rivoluzionario dalla Liberazione, quale è quello della costituzione delle regioni. Esse non si dovevano mai e poi mai attuare, proprio per quel divario che esiste non solo tra Nord e Sud, ma anche tra regione e regione».
Per Fiore, quindi, «non soltanto persiste irrisolta la questione meridionale», ma «la si aggraverà con la costituzione delle regioni», che avrebbe acuito le differenze e il divario tra gli abitanti delle varie zone d’Italia.
Non solo. Il futuro esponente del Psdi rimproverò ai sostenitori delle regioni di non aver tenuto conto della crisi della Sicilia, regione a statuto speciale, e di non aver considerato che le regioni sarebbero state un «regalo di nozze» al «dilagare della pressione scientificamente sovvertitrice del comunismo», specialmente nelle regioni definite “rosse”.
Ultima, tra le accuse mosse da Fiore al nascente istituto, fu quella di essere luogo di sprechi e clientelismo: «Non si è tenuto conto di problemi molto più importanti della costituzione delle regioni, che non serviranno ad altro se non a sistemare un po’ di gente in cerca di posto. Non si è tenuto conto dell’oscurantismo e dell’arretratezza in cui vivono alcuni paesini di provincia, abbandonati a sé stessi».
Naturalmente, l’istituzione delle regioni ebbe ripercussioni anche sul funzionamento dei partiti e delle loro articolazioni sul territorio, dal momento che occorreva accentuare il ruolo delle sezioni locali e dei comitati regionali, al posto del vecchio rapporto gerarchico tra la direzione nazionale e le federazioni provinciali.