Come abbiamo anticipato già nell’appuntamento di domenica scorsa, le elezioni politiche del ’68 si svolsero in un clima di forti contestazioni politiche studentesche. Contestazioni iniziate già nel ’66 e che proseguirono negli anni successivi in tutto il mondo, specialmente in Occidente, ma anche in alcuni paesi del blocco socialista. Il 1968 fu l’anno in cui le contestazioni raggiunsero il picco. Grandi movimenti di massa socialmente eterogenei dagli operai agli studenti, passando per gruppi etnici e altre categorie, come femministe ed omosessuali, manifestavano in quasi tutti i Paesi del mondo, protestando contro gli apparati di potere dominanti, i loro partiti e le loro ideologie. Manifestazioni che videro protagonista il mondo studentesco
Il movimento nacque già a metà degli anni ’60 negli Stati Uniti, con le manifestazioni, da parte prevalentemente dei più giovani, contro la guerra in Vietnam e contro le diseguaglianze sociali presenti nella società statunitense. Ma le premesse si ebbero già nel decennio precedente, con l’emergere di nuove interpretazioni della società, nuovi costumi e stili di vita, nuove visioni ideologiche che volevano una società in cui fossero abolite discriminazioni razziali e di genere, una rottura con il passato o con la famiglia tradizionale, la liberazione sessuale. Movimenti variegati e diversi tra loro che, ancora, criticavano il militarismo, l’imperialismo, la società dei consumi. E ancora, rifiutavano ogni gerarchia e autorità, nella scuola, come nella società, e sostenevano le lotte di liberazione dei popoli del Sud del mondo.
Talvolta, finivano in una più generale critica alla società industriale in favore di un ritorno alla natura, accompagnandosi, in alcuni movimenti, a filosofie orientali, forme di misticismo e, anche uso di droghe. Fenomeni che si registrarono in politica e nel mondo della cultura, dalla letteratura alla musica, passando per il cinema.
L’ondata di manifestazioni attraversò, dunque, l’Atlantico, espandendosi in Europa, raggiungendo proprio nel ’68, il loro apice con le proteste del Maggio francese, con la Primavera di Praga, con le proteste a Berlino Ovest contro la presenza statunitense e il conflitto vietnamita, le proteste studentesche in Inghilterra e in tanti altri stati europei e non.
In Italia le proteste iniziarono con l’occupazione dell’Università di Trento, nel ’66, primo di una serie di analoghi episodi in tutto il territorio nazionale, in un clima fortemente politicizzato e in un periodo in cui, in economia, l’ondata positiva del boom economico si spegneva sempre più. Il movimento sessantottino ebbe un carattere prevalentemente di sinistra, in rivalità con la cultura egemone dell’epoca e anticonformista, finalizzato, inizialmente alla lotta contro ingiustizie e corruzione, alla lotta per il diritto allo studio, contro un’università in mano ai cosiddetti “baroni”, alla protesta contro le diseguaglianze presenti nella società italiana (come, ad esempio, quelle relative al trattamento della donna). Istanze nuove, che, molto spesso, le istituzioni non furono in grado di cogliere in tempo. Ad essere criticato molto fu il mondo cattolico, dall’esterno e dall’interno. Ma anche i partiti di sinistra, come Pci e Psi, nonostante fossero più vicini alle cause sessantottine, furono criticati tanto da subire scissioni. Un forte clima di protesta destinato, purtroppo, anche a sfociare in forme di violenza. Scontri tra studenti e forze dell’ordine, tra studenti di sinistra e di destra. Finendo, infine, quando gli echi delle proteste si spensero e rimase la componente più radicale, che diede inizio alla stagione del terrorismo rosso.
«Qui in Puglia e a Bari il Sessantotto arrivò nel ’69 e, proprio nell’Università di Bari, conobbe un centro culturale di primissimo piano» ricorda il professore ed ex deputato Giuseppe Rossiello, sottolineando, tuttavia, che l’irradiazione verso le scuole superiori fu scarsa: «Ci furono scontri molto forti. La Facoltà di Lettere era prevalentemente rossa, rivoluzionaria e i suoi studenti premevano per una revisione del piano di studi. Giurisprudenza, invece, era marcatamente nera, conservatrice».
«Bari fu un importante punto di riferimento, con l’Ècole Barisienne di Beppe Vacca, Arcangelo Leone de Castris, Luciano Canfora e tanti altri» continua Rossiello, riferendosi a quello che, lo stesso Vacca, in un’intervista rilasciata a Repubblica, in occasione della morte del filosofo e storico comunista Alfredo Reichlin, definì «un gruppo intellettuale, variamente collegato al Pci che condivideva una lettura di quelle che erano le potenzialità del partito come capace di portare avanti in Italia un modello di socialismo diverso da quello che c’era nei Paesi socialisti. Quello che poi diventerà con Berlinguer il tema della democrazia come valore universale, per noi era già il succo della via italiana e della lezione togliattiana. Dopodiché non era una scuola, c’erano giuristi, storici, filosofi, economisti e alcuni punti di aggregazione come Barcellona in Sicilia, Rusconi a Milano e Cacciari a Venezia».
«Il Partito Comunista Italiano visse con molta attenzione quel fenomeno, tanto che molti di coloro che aderirono al movimento, confluirono, poi, nel Pci» ricorda ancora Rossiello, sottolineando, con amarezza, come altri, le frange più estreme, abbracciarono la via del terrorismo, «dando vita ad uno dei capitoli più tristi della storia d’Italia».
Ricorda bene quegli anni anche il professor Sabino Lafasciano, che, negli anni della contestazione, fece parte del Partito Comunista d’Italia Marxista Leninista, formazione di estrema sinistra nata nel ‘66. Lafasciano ricorda che, a Bari, la prima manifestazione non fu a sinistra, ma a destra, dopo il suicidio di Ian Palach a Praga: «In quegli anni anche a Bari iniziarono a formarsi miriadi di gruppi di estrema sinistra, come il nostro. Cercavamo una forza rivoluzionaria autentica, anche se alle elezioni votavamo Pci».
«Fu un momento di forti contrapposizioni e c’erano motivi per avere legittimi sospetti verso certi apparati dello stato italiano, a partire dal tentato golpe del ’64, dalle stragi che ci furono a partire dagli anni ‘60» ricorda Lafasciano, ammettendo di aver rivisto alcune posizioni dell’epoca: «Fu un grande esercizio di partecipazione. C’era una struttura nei movimenti, che, dalle scuole iniziarono a strutturarsi politicamente in diversi paesi del barese. C’erano rappresentanti nelle fabbriche, si collaborava con i sindacati, all’epoca molto forti, tanto da aggregare molta gente, c’erano comitati di lotta, circoli culturali. Ma ci sono cose che, oggi, non mi sentirei di ripetere. La cosa positiva dei movimenti extraparlamentari pugliesi è che nessuno è, poi, passato al terrorismo».
«A Bitonto noi ci contrapponevamo sia alla Dc di Saracino, che vedevamo come il partito dell’establishment, sia a Liaci, che all’epoca dirigeva il Pci» ricorda ancora Lafasciano, che, appena iscritto al Liceo Classico, fece parte anche della sua occupazione: «Ero al quarto ginnasio e facevo parte del movimento, che si organizzò per scuole. Partecipai all’occupazione».
E quell’occupazione la ricorda bene anche il professor Michele Giorgio, che all’epoca aveva appena iniziato ad insegnare: «È il ricordo più brutto. Un gruppo di ragazzi occupò la scuola impedendo a docenti, personale e alunni di entrare, tanto che il preside Cardone fu costretto a dimettersi».
«L’ambiente cattolico fu duramente contestato» spiega Giorgio, ricordando quando, ad essere oggetto di proteste, all’Università di Bari, fu Alberto Moravia, criticato perché, scrivendo sul Corriere della Sera, era visto come parte dell’establishment, un irreggimentato: «Apprezzavo alcune posizioni del movimento sessantottino, ma non condividevo altre. Condividevo la voglia di trasformazione della società, riassunta dal motto di quegli anni “L’immaginazione al potere”. Il lato positivo del ’68 è aver sollevato la necessità di una società più dinamica. L’aspetto negativo, invece, fu la violenza».
Naturalmente le proteste non riguardarono solamente il mondo studentesco, ma anche quello del lavoro, argomento che affronteremo domenica prossima.
L’ondata di manifestazioni durò fino agli anni ’70, spegnendosi sempre più e lasciando sul campo solamente, come abbiamo già detto, i più estremisti, i terroristi (ma anche questo argomento lo affronteremo più avanti). La fine degli ideali del ’68 provocò, in una parte del suo movimento, anche una profonda delusione, la delusione di chi «voleva al potere la fantasia», di chi «voleva un mondo meglio di così», come cantò Vasco Rossi in “Stupendo”.
Ma se il Sessantotto ebbe meriti indiscussi, portando alla conquista di diritti che negli anni successivi avremmo ottenuto, quell’ondata di rivendicazioni giovanili ha anche responsabilità negative, oltre al già citato terrorismo. Tra queste, per alcuni studiosi, anche l’essere tra le cause di quella crisi della politica e dei partiti che qualche anno dopo iniziò a manifestarsi.
Con il loro rifiuto ideologico delle autorità, quelle rivendicazioni giovanili, infatti, rappresentarono una sfida dinnanzi alla quale la politica europea si trovò impreparata, persino la sinistra, nell’Occidente capitalistico come nell’Impero Sovietico, nel campo comunista come in quello socialdemocratico.