È finita anche la nostra città nell’ordinanza emessa dal Gip Giovanni Abbattista, che ha portato in carcere – con l’operazione “Gaming Machine” – ben 27 persone (con altri 9 ai domiciliari, per un totale di 49 indagati) che gestivano in maniera “monopolistica” il mercato delle videolottery sull’intero territorio di Bari e provincia.
A finire nel mirino della Direzione Distrettuale Antimafia, quindi della Guardia di Finanza e dei comparti speciali ad essa annessi (GICO e SCICO), l’imprenditore barese Dario (Baldassarre) D’Ambrogio socio, di fatto, di imprese e sale giochi del capoluogo e dell’hinterland. Questo era diventato il “terrore” degli esercenti perché usava come “arma” e “scudo” la parentela importante data da suo zio, il pregiudicato Nicola D’Ambrogio, ritenuto tra i reggenti del clan Strisciuglio di Bari.
L’indagine scaturisce da una coraggiosa denuncia per usura ed estorsione sporta da un piccolo imprenditore barese titolare di una rivendita di tabacchi, vessato dalle pressanti richieste e violente minacce nei suoi confronti, proprio da parte di D’Ambrogio. Il focus investigativo, dunque, ha consentito di acclarare che il caso denunciato dal tabaccaio non rappresentava un caso isolato, ma riguardava altri imprenditori collusi che corrispondevano mensilmente al clan cifre tra i mille e i cinque mila euro.
Le indagini hanno permesso di svelare l’accordo con i vertici dei clan mafiosi di Bari e provincia per “compiere atti di concorrenza sleale – si legge negli atti – imponendo una posizione dominante nel mercato del videopoker e di altri apparati elettronici”. In particolare le organizzazioni mafiose facenti capo a Nicola D’ambrogio e tra i tanti anche a Vito Valentino, Vincenzo Anemolo (reggente dell’omonimo clan) e Giuseppe Capriati (figlio del boss) – “si sono divisi il territorio barese in zone di influenza, per acquisire in modo esclusivo la gestione o il controllo delle apparecchiature da gioco nei locali pubblici e nelle sale gioco”, anche attraverso l’estromissione di altri imprenditori concorrenti operanti nello stesso settore macchiandosi, così, del reato di illecita concorrenza.
Nell’ottobre 2015 Gianluca Romita – finito in carcere – assieme a Dario D’Ambrogio, arriva a Bitonto da alcuni esponenti del clan Cipriani – Cassano in quanto dovevano “installare delle macchinette presso una sala giochi nei pressi della basilica dei Santi Medici”. In questa circostanza D’Ambrogio si presentava ad uno degli affiliati del clan bitontino che, però, già lo conosceva e al fratello del boss. Questi avrebbero chiesto di “lasciare a loro la gestione di quel posto, mentre avrebbero concesso a D’Ambrogio la possibilità di installare i congegni a Palombaio”. I due baresi rappresentarono ai bitontini che “gli eventuali proventi ricavati dall’installazione delle macchinette sarebbero stati devoluti per il mantenimento in carcere di Vito Valentino (posizione apicale dell’articolazione territoriale del “clan Strisciuglio”) e Donato Querini”.
In particolare, il 19 novembre 2015 viene captata una conversazione ambientale all’interno di un’auto tra Romita e un’altra persona, entrambi dipendenti di Dario D’Ambrogio, che raccontano dell’incontro avvenuto un mese prima a Bitonto e dell’accordo fatto su Palombaio. Durante la conversazione emerge, soprattutto, la preoccupazione di Romita nell’impedimento di installare le macchinette perché doveva dar di conto ai suoi “mandanti”, nonché per eventuali dissidi che potevano sorgere tra loro. Anche perché “seppur detenuto i posti di Vito, non vengono toccati da nessuno”. Tanto che lo stesso pregiudicato bitontino – riferisce Romita durante l’intercettazione – avrebbe detto “…io di qua comunque dovevo mandare il pensiero a Vituccio”.
Durante la conferenza, infatti, è emerso che erano gli indagati erano soliti parlare in termini di “pensiero”, riferendosi ad un corrispettivo da mandare in carcere o da devolvere al clan. Inoltre, avere una sala slot, un tabaccaio, una ricevitoria con all’interno le macchinette di D’Ambrogio significava avere protezione e, soprattutto, evitare rapine o altri attacchi. Per le organizzazioni criminali significava anche avere a disposizione un vero e proprio bancomat di denaro contante, prima che le macchinette fossero “scassettate”.
Anche se, in alcuni casi, ci sono intercettazioni – del titolare di un bar – che, disperato, dice di non aver più potere decisionale all’interno della sua attività: “queste persone si mettono a portare cose e non mi avvisano…. cioè alla fine il bar non è più mio è vostro. Cioè di tutti, perché questo viene…. quello impone una cosa quello impone l’altra tu imponi l’altra ed io cosa sto a fare il pupazzo…”
Sono stati, inoltre, sequestrati beni per un valore di 7 milioni e mezzo di euro, tra cui sale slot, immobili, veicoli, complessi aziendali e oltre 200 rapporti finanziari.