Ogni guerra porta con sé un pesante prezzo da pagare. Non solo in termini di vite umane. Alle società uscite da un conflitto spetta anche un compito non facile: il reinserimento dei tanti reduci, carichi di aspettative per il servizio reso al paese, spesso con problemi fisici e psicologici causati dagli orrori vissuti.
Anche l’Italia del secondo dopoguerra dovette affrontare il problema. Anche nelle regioni più povere come la Puglia, dove il lavoro mancava, dove «si moriva di fame, come anche prima della guerra» come ci disse il reduce bitontino Emanuele Coviello.
Tanti ex militari cominciarono a riunirsi per avanzare rivendicazioni, in realtà come l’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, nata già all’indomani del primo conflitto mondiale e, dopo il secondo, trovatasi ad accogliere i soldati del secondo (fu tra le poche associazioni a non essere sciolta dal fascismo, sotto cui godette di grande rilevanza).
Nacque anche un partito politico tutto loro, il “Partito del Reduce Italiano”, che a Bari aveva sede in via Garruba e che alle elezioni per l’Assemblea Costituente prese lo 0,11% dei voti, non ottenendo seggi. Un partito che, insieme al Fronte dell’Uomo Qualunque e non senza ragione, destava sospetti per la presenza di ex esponenti fascisti, come sottolineò anche Nenni nell’intervista rilasciata alla Gazzetta del Mezzogiorno il 6 novembre ’45: «Io ho notato una cosa curiosa: il tentativo di servirsi dei reduci contro l’attuale governo, facendo ricadere sul governo le responsabilità del fascismo […]. [Nell’Italia Meridionale] i fascisti sono rimasti ai loro posti, hanno fatto sparire i segni esteriori della loro organizzazione, ma non hanno affatto rinunziato alla speranza di potere, sotto altri nomi e sotto altre bandiere, riprendere il controllo della vita politica. Essi si servono quindi o del Partito del Reduce o del cosiddetto qualunquismo come di una facciata dietro la quale sperano di ristabilire la loro dominazione politica in funzione degli interessi agrari».
Non era facile, per un paese distrutto dalla guerra, dare seguito a tutte le rivendicazioni. Non era facile dare loro il lavoro, in un paese dove, come titola la Gazzetta del Mezzogiorno del 25 gennaio ’46, “i negozi sono pieni di merci, ma le tasche non sono più piene di biglietti”, in cui la miseria bussava alle porte di tantissimi italiani e tanti disoccupati erano alla ricerca di un impiego.
I reduci chiedevano il conto dei loro sacrifici, chiedevano di riavere quel posto nella società che la guerra aveva loro strappato, costringendoli ad affrontare la morte sui campi di battaglia. Chiedevano lavoro in un paese dove il lavoro mancava. Chiedevano che le aziende sostituissero la manodopera femminile, per dar posto a loro.
«Dopo animata discussione, la assemblea ha approvato un ordine del giorno nel quale, fra l’altro, è richiesta la pronta costituzione della Commissione per assegnare lavoro ai reduci, in sostituzione delle donne, giusta il decreto prefettizio all’uopo emanato. L’assemblea ha invitato la Commissione a disporre il licenziamento delle donne entro il 31 corrente, in modo da fare posto ai reduci non oltre la prima decade di settembre, poiché questi hanno combattuti e sofferto e non possono rimanere ancora ad attendere le vane promesse» si legge in un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno del 29 agosto 1945, che riporta la cronaca dell’assemblea degli iscritti del Partito del Reduce, che si tenne nell’agosto del ’45 nella sede del Comune di Bari.
Come già accaduto dopo la Grande Guerra, le donne si erano spesso trovate a prendere il posto degli uomini partiti per il fronte e, dunque, erano sempre più intenzionate a proseguire il percorso di emancipazione. Anche attraverso il lavoro, in una società patriarcale in cui era l’uomo a dover lavorare. Proprio contro le aziende che non avevano sostituito la manodopera femminile, i reduci manifestarono a Bari il 10 gennaio ’46, davanti alla Manifattura dei Tabacchi, alla Posta Centrale, al Consorzio Agrario e alla Società Generale Pugliese di Elettricità.
Contro l’occupazione femminile la pressione era forte, nonostante, a sua difesa spesso si posero i sindacati. Il sindacalista Giuseppe Di Vittorio, ad esempio, prese pubblicamente posizione a favore del diritto delle donne di lavorare.
A temere i reduci erano gli altri lavoratori o aspiranti tali e che temevano di perdere il proprio posto di lavoro o di non riuscire a trovarlo, proprio a causa delle norme che avrebbero dovuto garantire il ricollocamento dei reduci. Una guerra tra poveri, per la sopravvivenza in una società poverissima.
Il governo emanò disposizioni, spesso violate, per obbligare le aziende ad assumere una quota di reduci. Si indissero, per l’accesso alle carriere pubbliche, concorsi speciali riservati ai reduci. Si stabilirono agevolazioni per il conseguimento degli studi. Ma non era un problema facile da risolvere. Le aspettative erano superiori alle reali capacità di assorbimento del mercato del lavoro dell’epoca.