Chissà quante volte siamo passati dinanzi a quella lapide – immediatamente sulla sinistra entrando dal primo cancello del cimitero comunale, e abbiamo rimuginato tante cose. Al perché fosse lì presente. A cosa davvero possa e potesse rappresentare. Chi erano quei nomi e cognomi lì incisi. Magari ci siamo anche fermati e abbiamo pregato per loro. O magari non ci abbiamo mai fatto caso.
Proprio per questo, allora, questo articolo è per tanti. Forse davvero per tutti. Per chi si è chiesto, senza mai avere risposta, quale avverso destino abbia colpito quei nostri fratelli in pienissima Seconda guerra mondiale. Ma anche per chi non si è mai posto nessun quesito, e/o non si è mai accorto di nulla.
Ma, soprattutto, per loro. Quei 14 (12 bitontini, due inglesi) eroi di quella triste mattina del maggio 1944. Eroi contro la loro volontà, forse, e secondi soltanto a un fato meschino e infingardo che in un conflitto mondiale reca sempre lacrime, cadaveri e distruzione. E, per di più, morti sul lavoro. Sì, proprio così. Mentre andavano a lavorare, ma di un qualcosa di cui c’era ben poco da vantarsi e nobilitarsi.
L’hanno chiamata “la strage della IoIò”, e ancora oggi chi la conosce la ribattezza così. In realtà la “IoIo” altro non era che 1010, il numero del battaglione inglese in questione colpito dalla immane tragedia. Ma, all’epoca, però, il tasso di analfabetismo, soprattutto nel Mezzogiorno, era alle stelle.
Bitonto, allora. Ultima fase della guerra contro il nazifascismo (il cibo consisteva in 3/10 decimi di pane al giorno, e per di più nero come il carbone, riferiscono i nostri nonni), e anche la città dell’olio e del sollievo era occupate dalle forze alleate. Quelle inglesi, ad esempio, erano comandate dal colonnello Giorgio Drewry.
Anche quella mattina, la scena era sempre la stessa. Camionette di soldati alleati che passavano in e per la città, sia nelle strade principali che in quelle di campagna, trasportando un gran numero di munizioni, pronte a essere usate in caso di azioni belliche.
In modo particolare, si fermavano in pienissimo centro e ingaggiavano un numero importante di operai (una quindicina, forse anche una ventina), naturalmente pagati a giornata, che salivano su queste camionette per dirigersi verso altri luoghi prestabiliti. Il compito? Piazzare le munizioni proprio in questi posti.
Ma quel tragico giorno, tutto è andato per il peggio.
La “solita” vettura, con 14 persone a bordo – di cui una ingaggiata all’ultimo per rimpiazzare un assente – era in direzione Santo Spirito, quando, per cause mai del tutto accertate e chiarite, anche se si pensa che tutto sia da addebitare a uno o vari mozziconi di sigarette, il camion pieno zeppo di bombe esplode in una vera e propria deflagrazione. Il disastro è incredibile e nessuno ne esce vivo. Tutti senza scampo. Colpiti come da folgore, recita in incipit la lapide.
I folgorati sono Francesco Calò, Giovanni Carnicella, Michele Carnicella, Carlo Cirone, Vincenzo Cozzella, Giuseppe Guglielmo, Giuseppe Milillo, Giuseppe Naglieri, Gaetano Saracino, Vito Sivo, Michele Sgaramella, Andrea Valentini, e due inglesi.
Uomini semplici. Persone qualunque. Che mai si aspettavano che la Natura – intesa come destino – li potesse ingannare in siffatta maniera. Vile e subdola.
I resti di quelle 14 anime, per volontà dell’allora commissario prefettizio Nicola Calamita, del comandante inglese delle truppe cittadine e dei loro compagni, riposano lì, in via Traiana, dove c’è quella lapide.
E, guardando i loro innocenti e candidi volti, non è difficile pensare a tutto ciò che c’è scritto, ma anche essere convinti di una cosa.
Questa: “Non vive più ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi?”.
Tutto, rigorosamente, pietosamente, all’ombra dei cipressi.