Claudio Domino aveva 11 anni.
Era un bambino gioioso e pieno di vita che, come tutti i bambini, gli piaceva giocare e magari corriere dietro un pallone. Il 7 ottobre 1986, si trovava assieme a due amici, nel quartiere san Lorenzo di Palermo, vicino dove lavorava sua madre in una cartolibreria e camminava spensierato come se nulla fosse. Perché, giustamente, non aveva minima idea di quello che gli sarebbe accaduto di lì a poco.
Un episodio, da lacrime solo a raccontarlo, che smonta il tabù che Cosa Nostra, la terribile Cosa Nostra, non ammazzava i bambini. E non c’è solo da attendere il 1996 e l’acido dentro il quale è stato sciolto Giuseppe Di Matteo. Figlio di quel Santino che era diventato improvvisamente squillante. Ma l’elenco è lungo e dice 108.
Claudio Domino, allora. Un uomo lo chiama e intercetta la sua attenzione. È a bordo di un motorino. Una questione di fatali secondi e il killer apre il fuoco contro quel povero bambino. Un solo colpo di pistola. In fronte. A bruciapelo e fatale. Claudio cade e non si rialza più. Morto ammazzato come se fosse un boss mafioso.
Era la Palermo dei terribili anni ’80. Il potere è passato di mano ormai da quattro anni, e il capoluogo dell’isola più grande del Mediterraneo stava conoscendo la mattanza dei Corleonesi guidati da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Ma proprio quell’anno è in corso qualcosa che lascerà il segno. Si stava celebrando il maxiprocesso che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano preparato rinchiusi all’Asinara e sulle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. E la mafia si era fatta pure silenziosa quasi stesse attendendo quella che sarebbe stata la propria sorte.
Ma cosa c’entra la morte di un bambino di 11 anni e uno dei più grandi processi che siano mai stati celebrati in Italia? Forse qualcosa, forse niente, fatto sta che sulla storia di Claudio Domino ci sono ancora due punti interrogativi. Chi è quell’assassino sullo scooter che lo ha ammazzato senza pietà? E perché non ha avuto pietà?
Il piccolo Claudio non era figlio di un mafioso, tanto per incominciare. Il papà era il gestore del servizio di pulizie dell’aula bunker dove si stava svolgendo il maxiprocesso. E, anche in quell’aula, l’eco di quell’omicidio efferato arriva eccome. Ma i boss alla sbarra, quelli più potenti, subito prendono le distanze.
Michele Greco, detto “il Papa”. Giovanni Bontate, fratello di quel Stefano che di quella cupola ne è stato a lungo il capo.
Poi, però, qualcosa emerge. Grazie ad alcuni collaboratori di giustizia. Che dicono che Claudio aveva visto qualcosa che non doveva vedere. Molto probabilmente aveva visto l’omicidio di due ragazzi della borgata. La sua, quella di san Lorenzo, situata nella parte centrosettentrionale della città.
Oppure avrebbe visto confezionare dosi di droga in un magazzino.
Dopo 33 anni ancora non lo sa nessuno.