Un anno fa, Matteo Renzi lanciò l’idea dei Comitati Civici, per rilanciare il Partito Democratico e per riprendere la strada della “rottamazione”, lasciata a metà, come disse a Bruno Vespa nel libro “Rivoluzione”.
Ma per chi ha avuto modo di sfogliare qualche libro di storia, l’espressione “Comitato Civico” non è per nulla nuova, per nulla originale (come, del resto, non lo fu neanche la retorica della “rottamazione”, ma questo è un altro discorso, per cui lasciamo al lettore la curiosità di scoprire chi fu il primo ideologo di tale concetto).
I Comitati Civici, quelli originali, nacquero negli anni ’40 da Luigi Gedda, l’allora vicepresidente dell’Azione Cattolica, su incarico di papa Pio XII. Furono un’organizzazione collaterale alla Democrazia Cristiana, finalizzata alla mobilitazione civica e politica dei cattolici in Italia. Una sorta di cerniera tra il partito e il mondo delle parrocchie. Sorsero per la prima volta con lo scopo di impostare la campagna elettorale del 1948 in funzione anticomunista, quando il pontefice temette un’avanzata dei socialisti e dei comunisti. Specialmente dopo i preoccupanti risultati delle elezioni regionali siciliane dell’aprile ‘47, che segnarono un incremento del blocco socialcomunista e un regresso della Dc, e dopo che un diffuso malessere dei cattolici verso quel partito aveva portato ad una fuga di elettori verso il Fronte dell’Uomo Qualunque. La loro funzione fu, quindi, quella di organizzare la propaganda elettorale democristiana e sciogliere le incertezze manifestate dalla Dc nella contrapposizione alla sinistra.
Sornero nei mesi precedenti le elezioni del ’48, sottoforma di gruppi che, in ogni diocesi, avrebbero dovuto mobilitare gli elettori cattolici. E qualche risultato lo ottennero, dato che, rispetto alle elezioni del ’46, la Dc prese 4 milioni di voti in più, raggiungendo il 48% per entrambe le camere del Parlamento Italiano. La loro struttura rifletteva quella della Chiesa Cattolica. Ad un Comitato Civico Nazionale erano subordinati i tanti Comitati Zonali (a livello delle diocesi) e Locali (a livello delle parrocchie).
La nostra diocesi, all’epoca, era quella di Ruvo – Bitonto che, all’epoca dell’istituzione dei Comitati Civici, era retta da Andrea Taccone, a cui, nel ’50, seguì Aurelio Marena.
Ma come funzionavano queste organizzazioni nei comuni, ai livelli più periferici dell’azione politica? Una chiara illustrazione ce la fornisce la lettura di una relazione scritta nel ’58 e conservata nel Museo Diocesano, di prossima apertura.
Nella relazione il lavoro del Comitato viene distinto in lavoro pre-elettorale e lavoro durante le operazioni di voto: «Il lavoro pre-elettorale [consiste in]: preparazione liste per ogni parroco, classifica degli elettori, azioni di persuasione e propaganda capillare, formazione dei giovani attivisti, rinascita dei Comitati Civici Zonali, incontri e conferenze parrocchiali, comizi rionali».
Il lavoro durante le operazioni di voto, invece, consisteva, secondo la stessa relazione, in «vigilanza delle sedi elettorali, conquista degli elettori dormienti, prelievo a domicilio degli ammalati, assistenza ai nostri vari centri di lavoro».
Nella stessa relazione si illustrano anche i risultati ottenuti, giudicati soddisfacenti sia per la Camera che per il Senato, nonostante la forza del Pci e del Psi (le parole e le espressioni usate sono una dimostrazione del carattere fortemente antisocialista e anticomunista): «Il Pci e il Psi si sono avvantaggiati dei voti (in parte) del Pnm. Questi tre partiti già in Bitonto collaboravano al Comune insieme; quindi nessuna sorpresa. Inoltre, è da notare la presenza di un elemento locale per il Senato, sia a Ruvo (Pci), sia a Bitonto (Psi): elementi fattivi, intraprendenti, pericolosi (si riferisce, rispettivamente, al ruvese Giuseppe Gramegna e al bitontino Angelo Custode Masciale, ndr). Ma sono stati eletti anche i nostri due senatori candidati: il senatore Jannuzzi (collegio Ruvo-Andria) e il senatore Angelini (collegio Bitonto 45000 preferenze)».
Sebbene i Comitati Civici fossero stati decisivi nella vittoria elettorale del ’48, e nonostante il contributo che questi potevano dare ai candidati dello scudo crociato, nei decenni successivi i rapporti tra Democrazia Cristiana e Comitati Civici cominciò ad incrinarsi ben presto. Il partito cattolico temeva, infatti, che potessero rappresentare una forte limitazione dell’autonomia decisionale. E, man mano che il partito acquisiva una struttura organizzativa propria, che si occupasse da sola della propaganda, i Comitati persero sempre più il loro ruolo. Già a partire dalle elezioni amministrative del ’52, quando, a Roma l’organizzazione di Gedda tentò di spingere verso un’alleanza tra democristiani, monarchici e missini, guidata da Luigi Sturzo, in alternativa alla sinistra. Un’operazione che fallì per l’opposizione di Alcide De Gasperi, contrario ad entrare in coalizione con i neofascisti. Successivamente altre fratture si crearono con la formazione dei governi di centrosinistra, non visti di buon occhio dai Comitati Civici.
«Si iniziò a scioglierli quando ci si accorse che, tramite questi, si voleva imporre la corrente clericale» ricordò Michele Giorgio in occasione del nostro appuntamento sulla Democrazia Cristiana.
Le ultime attività di queste organizzazioni si registrarono negli anni ’70, in occasione del referendum abrogativo sull’aborto. Fermamente positiva fu la loro posizione. E, sicuramente, anche quell’insuccesso, unita alla secolarizzazione della società, portò alla loro scomparsa.