C’erano le sere d’estate, sulla piazzetta in fondo alla via Maggiore, dove giovani e vecchi si riunivano per raccontare e ascoltare. Era il luogo della “tradizione orale”, del passaggio di un testimone, fatto di parole, che una generazione consegnava all’altra con la leggerezza dei racconti, un po’ in dialetto, quando parlava il cuore e un po’ nell’italiano delle prime scuole.
Era come se la memoria convocasse ogni sera quell’adunanza, per depositarsi e continuare a vivere nello slargo dove s’erano appena spente le giocose e festanti voci dei bambini. In quel “convivio” semplice e vero, approdava la cronaca del giorno, la saggezza contadina dei padri, la nostalgia per un parente lontano, o la “novità” arrivata dal paese vicino.
Una specie di romanzo popolare che si arricchiva, di sera in sera, di nuovi fatti e immagini scritte con le voci, una trama continuamente tessuta, un raccontare e un “sentire” comune, come una grande scuola all’aperto dove imparare a stare insieme.
Era quella capacità di “affabulare” che i più vecchi possedevano naturalmente, perché la parola era fonte di ogni racconto e mezzo per il suo moltiplicarsi, in un tempo appena radiofonico e non ancora televisivo. Era la vita che raccontava la vita.
In un continuo oscillare tra effimero ed eterno, molti fatti svanivano con la “buonanotte” che scioglieva la compagnia, ma altri restavano, magari nascosti nei cassetti della memoria, che una canzone avrebbe un giorno riaperto regalando ricordi ed emozioni.
Quella piazzetta, i suoi “aedi” illetterati eppure ascoltati a volte come oracoli, sono il senso di una memoria, di una parola che salva, che protegge nel diluvio. Nel bombardamento dei “bit” c’è una uscita di sicurezza, un porto nascosto. Una voce antica che resiste e ancora parla nel frastuono del mondo.
FOTO COLLEZIONE PRIVATA DEL DOTTOR MICHELE MUSCHITIELLO