Recensioni prodotte da Sara Sicolo, studentessa del liceo classico “Sylos”, all interno del workshop di critica “Buona la prima“, svolto presso Arci Kiriku in collaborazione con webzine opereprime.org e pointblank.it. Appuntamento per la visione nel piazzale antistante il Fab Lab (viale delle Nazioni) alle 20.45: ingresso gratuito
Presentato al 33° Torino Film Festival, I racconti dell’orso è un film di 67 minuti nato da un viaggio di quaranta giorni in Norvegia e Finlandia e dalla scommessa di due giovani artisti, Samuele Sestieri e Olmo Amato, di raccontare una storia servendosi di due semplici reflex, di un team composto esclusivamente da se stessi e di un abbozzo di sceneggiatura, quest’ultima modificata in post produzione. In un mondo in cui degli uomini non sono rimaste che tracce (una città abbandonata, una cattedrale al dio sole, un campo di spaventapasseri), un omino rosso e un monaco meccanico si rincorrono e si scontrano senza sosta sullo sfondo di paesaggi fiabeschi arricchiti da una suggestiva sonorizzazione finanziata dal crowdfunding e curata dalla New Digital.
Nel corso di un inseguimento sfiancante i due si imbattono in un orsetto di peluche ferito, e dopo il vano tentativo di curarlo, appronteranno per lui un funerale degno di un guerriero vichingo. In questo addio si raggiunge il culmine della narrazione onirica: i due protagonisti salutano l’orso allontanarsi sulla sua pira-zattera e un’inquadratura raccoglie i tre soggetti stagliati contro uno sfondo riflettente. L’acqua lacustre che riproduce il cielo, finisce per generare una nuova dimensione nel mezzo dei due ambienti, è lo spazio del sogno, come quello della bambina dormiente, che dà inizio al film (incipit recuperato dai registi, per un fortunato caso nel corso del montaggio).
La limpidezza dell’acqua è un mezzo di cui la narrazione di Amato e Sestieri si serve spesso nei momenti di tranquillità o di lucida malinconia in contrapposizione all’offuscamento causato talvolta da una fitta nebbia. Le superfici riflettenti (l’acqua del lago, il vetro del santuario) non risultano mai essere veri e propri specchi che restituiscono l’immagine dei personaggi, ma rimandano piuttosto alla natura, al fogliame, al cielo.
Così la pellicola effonde un semplice ma chiaro panteismo: la limpidezza delle immagini e dei suoni spinge lo spettatore a fondersi con la foresta. Ad invocare il creato sono innanzitutto i protagonisti i quali, a differenza della folla di spaventapasseri che, seppur raggruppati, avanzano al dio richieste egoistiche (una gonna nuova, la morte del passero giallo, un taglio di capelli) si uniscono nella preghiera di guarigione dell’orsetto.
Interrogandoci sulle dentità di questi due insoliti personaggi, non dovremmo cercare risposte lontano da noi. L’omino rosso e il monaco meccanico si muovono all’interno di un mondo, metafora forse di un universo interiore, abitato da nient’altro che dal nostro vissuto riplasmato dall’immaginazione: il primo esprime la parte più pura, istintiva e innocente, una perenne infanzia che riesce ad abbracciare la bellezza della natura e a trarne gioia, il secondo invece di contrasto prefigura l’età avanzata, disillusa e stanca, incapace di stare al passo con l’energia e la vitalità della fanciullezza, che ancora non accetta come ogni orsetto sia solo di passaggio e prima o poi si dovrà lasciarlo andare. Nel tentativo di salvare il peluche e nella sua inevitabile perdita, le due nemesi si terranno per mano, concedendosi una tregua e ricongiungersi in una malinconica tenerezza.