Domenica è stata festeggiata ovunque in Italia la Festa della Repubblica per celebrare quel 2 giugno di 73 anni ra, quando gli italiani furono chiamati a scegliere se restare sotto la monarchia sabauda o trasformare l’Italia in una Repubblica. L’esito lo sappiamo tutti. Da quel voto iniziò l’iter che avrebbe portato, nel giro di un anno e mezzo, alla stesura e all’entrata in vigore della costituzione repubblicana.
Il neonato circolo Anpi di Bitonto ha voluto rendere omaggio a questa importante ricorrenza con un incontro, tenutosi nei giorni scorsi al museo De Palo Ungaro sul tema “Costituzione e federalismo regionale”, per discutere sulle riforme federaliste che hanno interessato la carta fondamentale del nostro ordinamento e del progetto, in tal senso, del governo in carica.
«Dietro il federalismo continuano a nascondersi subdolamente significati nascosti» introduce il giornalista Valentino Losito, introducendo la discussione e paventando i rischi di un federalismo che tenda ad aumentare la competizione tra regioni o che abbia in sé tendenze secessioniste: «Quando parliamo di sanità, scuola, parliamo di ambiti fondamentali per la vita umana. Ci si dovrebbe basare sulla costituzione, affinché si rimuovano gli ostacoli. Le riforme non dovrebbero essere, esse stesse, un ostacolo. Non dovrebbero promuovere una secessione tra i cittadini e i loro diritti».
«La Costituzione si può cambiare e tante volte è stato fatto. Si può cambiare tranne che nella sua parte fondamentale» spiega il magistrato ed ex parlamentare Nicola Colaianni, che denuncia il rischio, insito, a suo dire, nel progetto federalista delle forze oggi al governo, che si cambi la costituzione «non in modo esplicito come era nel progetto di Renzi, ma implicito, facendo credere di volerla attuare».
«C’è il rischio di una secessione di fatto» sostiene Colaianni, perché «in base alla loro forza le regioni potrebbero richiedere autonomia differenziate, senza passare per il Parlamento, ma solo attraverso intese tra regione e governo. Si rischia di avere altre regioni a statuto speciale, ma con una differenza rispetto a quelle che già ci sono. Non sarebbero più approvati con legge dello Stato, con la possibilità del Parlamento di esprimersi. Il Parlamento dovrebbe solo prendere o lasciare, ed essendo la maggioranza delle forze che vi siedono favorevole al progetto, sappiamo bene quale sarebbe il risultato. Si voterebbe “sì” o “no” in base a chi ha proposto».
Una possibilità che sfrutterebbe a suo vantaggio e «in malafede» l’iter seguito nelle intese con le confessioni religiose, previsto dall’articolo 8, ma che marginalizzerebbe il ruolo del Parlamento impedendo che possa esprimersi sulle intese tra Stato e regioni.
Si parla, in particolar modo, di tre regioni, Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, che nel febbraio 2018 firmarono una pre-intesa con l’allora governo Gentiloni.
Un «fardello ereditato dal precedente governo», secondo il professore universitario, che aggiunge: «Un fardello ereditato molto volentieri dalla Lega, che da sempre mira ad un trasferimento di competenze dallo Stato alle regioni. Il problema è che diritto fondamentali come il diritto alla salute dovrebbero essere garantiti allo stesso modo in ogni regione. Al centro delle politiche per la sanità dovrebbero esserci i bisogni dell’individuo, non delle regioni».
«Sarebbe una riforma subdola. Si avrebbe una sconfitta del principio di solidarietà» conclude il magistrato, passando la parola a Giovanni Procacci, già senatore ed europarlamentare, che accusa le riforme federaliste volute dai governi di centrosinistra, a partire da quella del Titolo V della Costituzione: «Fu approvata con soli tre voti di maggioranza e con un referendum confermativo che ebbe un quorum del 34%. È una riforma scritta male, figlia non di una discussione, ma della volontà di recuperare qualche voto al Nord».
Sotto accusa, da parte di Procacci, anche il progetto di riforma di Renzi, colpevole di non aver spacchettato i quesiti della sua riforma trasformando il referendum in un voto sul suo governo. Per l’ex senatore il federalismo non è, di suo, negativo: «Il problema è che devono essere garantiti i livelli minimi di prestazione».
«Ci troviamo in una situazione imbarazzante, perché la destra ha tratto vantaggio dalle politiche del centrosinistra» continua, accusando le gravi responsabilità sia del governo Gentiloni che del governo Amato, in carica nel 2001, quando fu varata la riforma del Titolo V. Gravi responsabilità per aver preso decisioni importanti sul finire della legislatura, in campagna elettorale, contribuendo a minare il ruolo del Parlamento e dando un precedente al governo attuale: «È chiaro che vogliono esautorare il Parlamento. Ma è questa istituzione che rappresenta lo Stato, non il Governo. Non si possono prendere decisioni così importanti a cuor leggero, senza passare per il Parlamento».
«Per convincervi vi chiedono, in maniera provocatoria, se siate contenti della situazione attuale. Ma pensate a cosa accadrebbe nella scuola, che storicamente è stata un grande fattore di unità. Nel giro di qualche anno si avrebbero regioni tra loro completamente diverse. I programmi scolastici non si devono toccare» continua Procacci, invitando a non parlare in modo pregiudiziale, per non passare per quelli che dicono “no” a tutto: «Dobbiamo ragionare con lungimiranza, cominciando a definire i livelli minimi di prestazione. Poi vediamo se al Sud conviene ancora».