Fuori dal cosiddetto “arco costituzionale” oltre ai monarchici, furono considerati anche, e ovviamente, i fascisti, gli eredi del dissolto Partito Nazionale Fascista, che il 26 dicembre 1946 si riunirono nel Movimento Sociale Italiano. Il Msi sorse per tenere viva l’eredità del fascismo, e quindi rifiutò sempre di condannare il ventennio del regime. Ma, diversamente da altri movimenti neofascisti, negò ogni intenzione di riportare in vita il vecchio sistema, secondo la formula “Non rinnegare, non restaurare“.
Questo permise loro di continuare a far politica in uno stato in cui è vietata l’apologia del fascismo ed «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», come recita la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione Italiana, che divenne definitiva nel 1952 con la legge 645, meglio nota come “Legge Scelba”, dal suo ideatore, il democristiano Mario Scelba.
Come simbolo fu scelta la fiamma tricolore, emblema degli Arditi, squadra speciale dell’esercito italiano attiva nella Prima Guerra Mondiale. Fiamma che, a Bitonto, negli sfottò ironici dei democristiani nelle elezioni del ‘48, divenne “la fiamme du PB-Gas”, che «nan abbriusce, puzze skitte».
La dissoluzione del Fronte dell’Uomo Qualunque (e nel ’72 quella con i monarchici) permise di aumentare i consensi iniziali, soprattutto nel Mezzogiorno, dove fu sostenuto da piccola borghesia e proprietari terrieri in risposta alle occupazioni e alle proteste dei braccianti agricoli sostenuti dal Partito Comunista.
Ma, nonostante ciò, il Msi, per tutta la sua storia, rimase un partito di opposizione, minoritario. Non poteva essere altrimenti in un sistema politico sorto in contrapposizione a quell’esperienza di cui il movimento era erede. In uno stato in cui, nell’immediato dopoguerra i fascisti erano stati allontanati dai loro ruoli politici e sostituiti dai membri del Comitato di Liberazione Nazionale, come avvenne anche a Bitonto, dove l’ultimo podestà fascista Giovanni Battista Dragone fu sostituito dal Cln con il commissario prefettizio Giuseppe Zaza.
E proprio nell’ottica di quella contrapposizione, i neofascisti si riproposero come l’antipartito, opposto ai partiti dell’ex CLN, visti come artefici della sconfitta e colpevoli di tradimento. Cercarono di competere, nella critica anticomunista, con la Democrazia Cristiana, usando spesso un’antipolitica dettata dall’antipartitismo. Fattore evidente già dal denominarsi “movimento”, al pari dell’Uomo Qualunque. Il termine “partito” era lasciato al nemico, secondo una visione che, talvolta, non era molto lontana da Giannini, come sottolinea lo storico Salvatore Lupo nel suo “Partito e antipartito”, riportando le parole di Alfredo Cucco, ex vicesegretario del Pnf, poi approdato nel Msi: «Giovani di oggi e di domani, diffidate della politica attiva! Ripudiate il politicantismo. Siate uomini di fede, di fede nell’ideale, di fede nella patria, ma – guardatevene bene! – non siate uomini di partito».
Ma, nonostante il porsi come eredi del fascismo, il non riconoscere l’antifascismo come valore e il non aver preso parte ai lavori dell’Assemblea Costituzionale, secondo lo storico Franco De Felice, il Movimento Sociale Italiano ebbe una funzione costituzionale, dando rappresentanza ad una parte del panorama politico italiano che, altrimenti, avrebbe potuto sfociare nell’eversione nera.
«Mio padre e mio nonno avevano aderito al Pnf. Io mi sono iscritto al Msi nel ’68, ma già militavo nella Giovane Italia (braccio studentesco del Msi, ndr) dal ’62, quando presidente era Cettino Trotta» ricorda Franco Tassari, storico esponente del movimento, ricordando i suoi esordi, quando decise di dare il proprio contributo nella campagna elettorale per le elezioni politiche del ’68, conoscendo storici esponenti del movimento in Puglia, come Michele Cassano, Ernesto De Marzio, Renato De Robertis, Giuseppe Tatarella.
In un movimento che aveva accolto, a livello nazionale, molti membri del Pnf, anche con ruoli di rilievo e con pesanti responsabilità (è il caso ad esempio di Rodolfo Graziani, che, scampato dall’accusa di crimini di guerra, divenne presidente del Msi), non potevano non esserci anche coloro che, durante il Ventennio, avevano militato nel partito unico di Mussolini. Erano tutti gli iscritti più anziani, come sottolinea Tassari, ricordando il professor Domenico Stellacci, l’ultimo tra i segretari ad essere stato nel Pnf.
«Non ho mai celebrato il 25 aprile» ammette, reputando quella giornata la celebrazione di una sconfitta e di un’invasione da parte degli eserciti Alleati. Ben più sentita era, invece, la ricorrenza del 28 ottobre, anniversario della Marcia su Roma e dell’ascesa al potere di Mussolini. In quella data, infatti, iniziava il tesseramento.
La sede bitontina cambiò più volte ubicazione, spostandosi da via de Ilderis a Corte Pannone, ai locali sopra l’ex Gambrinus e in via Silvio Pellico.
«Si organizzavano incontri e convegni a cui si partecipava sempre molto volentieri. Ci si informava sul nostro giornale che era il Secolo d’Italia» ricorda l’ex missino, parlando dell’anno in cui il Msi a Bitonto ebbe un boom di consensi, il 1983, quando si riuscì a far eleggere al Senato Gioacchino Giangregorio.
Primo ad approdare in consiglio comunale fu Pasquale Lomaglio, l’ex colonnello che, nel luglio ’43, facendo da tramite tra tedeschi e rivoltosi, riuscì ad evitare violenze e successive rappresaglie.
Ci sono state indagini della magistratura che hanno indagato sul Msi, anche a Bari, soprattutto nei difficili anni ’70 dopo l’omicidio di Benedetto Petrone (tra gli inquirenti ci fu l’attuale sindaco di Modugno Nicola Magrone, che indagò su rapporti tra eversione nera e criminalità organizzata barese, ma ne parleremo in altra occasione). Ma l’inchiesta delle inchieste, Tangentopoli, non coinvolse il Movimento Sociale Italiano (anche perché raramente i missini arrivavano a ricoprire cariche pubbliche rilevanti, essendo perlopiù relegati ad essere forza di opposizione). Anzi, salutò talvolta anche con favore quelle indagini che provocarono la fine dei partiti della Prima Repubblica, come ammette Tassari: «Il tempo ci aveva dato ragione. Noi avevamo sempre criticato il loro modo di agire, basato solo su ricerca di affari, abusivismo e corruzione».
Dello stesso parere Cettino Trotta, altro storico esponente cittadino del Msi e, poi, della destra post-missina, che nel ’98 (ormai dopo la svolta di Fiuggi che trasformò il movimento in Alleanza Nazionale), si candidò a sindaco, se pur per una lista civica: «Le indagini della magistratura svelarono un segreto di Pulcinella. Tutti sapevano e allo stesso tempo nessuno sapeva. C’erano state denunce riguardanti irregolarità nelle spese, sprechi di soldi a vuoto. È nella spesa che si annida la corruzione. Anche Indro Montanelli lo aveva denunciato anni prima».
«Io sono anticomunista e ho una formazione di destra» spiega Trotta, mostrando un piccolo opuscolo intitolato “Il testamento politico di Mussolini”, l’ultima intervista rilasciata dal capo del fascismo a Gian Gaetano Cabella, allora direttore del “Popolo di Alessandria”, pochi giorni prima della sua uccisione, quando aveva ormai consapevolezza della sua imminente caduta: «Qui ci sono tutti i nostri principi e le nostre idee. Collaborazione tra le classi sociali e non lotta di classe, cura del lavoratore, proprietà privata sacra, ma a condizione che non sia un insulto alla miseria, potenziamento dell’autarchia e cooperazione tra gli stati, esaltazione dello spirito patriottico, moralità in tutti i campi, cura e protezione della madre e dell’infanzia, assistenza fraterna ai bisognosi. Si il fascismo ha fatto degli errori, ma gli errori fanno parte dell’umano. Di quell’esperienza si racconta tutto il male possibile, mai gli aspetti positivi».
«Fui uno dei bitontini che andò ai funerali di Giorgio Almirante. Diedi anche un passaggio ad altri missini bitontini come i fratelli Lillo, Tommaso Mancini, Fanelli» aggiunge Trotta, ricordando la sua partecipazione alle esequie dello storico segretario nazionale missino e i ringraziamenti ricevuti da Gianfranco Fini, quando, in occasione delle elezioni nel ’92, «le ultime nell’ancient regime», la sezione bitontina contribuì alla vittoria di Giuseppe Mininni Iannuzzi, eletto al Senato. Egli stesso arrivò, nel ’94, quasi alla Camera dei Deputati, superando, nei voti, Nichi Vendola, salvo poi vedere la sua vittoria sfumare e andare al terlizzese a seguito di un riconteggio che, sulle pagine del “da Bitonto”, definì uno “scippo elettorale”.
Entrambi gli intervistati, concludendo, conservano un vivo ricordo della fine dell’esperienza dell’Msi, con la cosiddetta “svolta di Fiuggi”, con cui l’erede del Partito Nazionale Fascista, abbandonando ogni riferimento al fascismo e, addirittura, condannandolo, diventò Alleanza Nazionale. L’ala del movimento che non condivise la svolta confluì nel Movimento Sociale “Fiamma Tricolore” di Pino Rauti.
Se Tassari parla di «passaggio naturale e non traumatico, anche perché ormai la vecchia componente del movimento non c’era più», Trotta ricorda: «Io partecipai al passaggio di Fiuggi. Ci furono tanti lacrimoni, perché noi credevamo in quel che facevamo».