Enti percettibili: l’attacco alla pelle
Abbiamo detto poco sopra come consideriamo la pelle, ossia percipiente, ed abbiamo
subito esplicato l’oggetto della sua percezione: il mondo esterno. Ora ci focalizzeremo nell’analisi di quest’ultimo, soprattutto delle componenti che lo formano, quindi gli enti.
Presto detto quindi: ogni ente, poiché plausibilmente esistente, risulta essere un possibile attaccante al percipiente.
Innegabile come la percezione del danneggiamento venga data dalla persona individuale: ponendo il caso che l’ente attaccante sia una persona, i rapporti interpersonali che legano quest’ultima al percipiente giocano un ruolo fondamentale alla quantificazione e qualificazione del dolore.
Facciamo un esempio: avete avuto una delusione d’amore. Questa inoppugnabilmente segna il proprio benessere, arrecando gran danno alla persona, danno che il percipiente non riesce in alcuna maniera a trattenere. Dicotomicamente,
avete avuto una delusione in un rapporto d’amicizia e fiducia: di certo non provocherà lo stesso danno arrecato dal primo esempio descritto.
Perché, però, gli Enti possono danneggiare?
Questa è una domanda che potrebbe venir spontanea: perché ed in quale maniera gli
enti possono effettivamente danneggiare il percipiente? Inoltre, cosa significa, per un
ente che compie l’azione di danneggiamento, quest’ultima?
Facciamo riferimento al “conatus” spinoziano, ossia: lo sforzo di autoconservazione
di tutte le cose, e cerchiamo di contestualizzarlo all’interno della nostra trattazione.
Citando Spinoza stesso: “noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo né desideriamo qualcosa perché riteniamo
che sia buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona qualcosa perché la
cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo e la desideriamo” – Spinoza, Ethica
Soffermiamoci quando egli dice che il giudicare qualcosa positivamente deriva da un
desiderio di possesso della qual cosa, oppure l’appetiamo. Discutiamo di
quest’ultimo termine.
E’ chiaro come Spinoza abbia utilizzato questo verbo in senso di “bramare”, eppure
nel caso volessimo considerarlo come “avere in fame”, potremmo dar adito ad una
riflessione che potrebbe scuoterci.
Gli enti, e quindi l’uomo, sono affamati, si ritengono digiuni pur essendo sazi;
l’uomo è un essere che ha in desiderio tutto il desiderabile e che quindi lo brama
come se fosse un cibo, come se fosse ambrosia, e per potersi accaparrare ciò che vuole, passa ferocemente, generando come un tornado, quindi danneggiando tutto
quel che ha attorno, a volte anche se stesso; e quel tornado, proprio quel tornado è il
danno.
Il danno è quindi figlio della fame e di un presunto digiuno, percepito dall’ente, ed è
la conseguenza, a volte non volontaria, dell’agire per appetito.
Apostrofando in questa maniera la sensazione d’appetito degli enti, potremmo
pensare che questa sia esclusivamente una qualità negativa, eppure non lo è: nel caso
dovessimo aver fame di obiettivi non deplorevoli, che non dovrebbero arrecar alcun
dolore , l’operosità, la volontà di perseguirli e la fame di conseguirli è estremamente
positiva e necessaria al buon fine.
Eppure la probabilità di provocare un tornado indesiderato è sempre dietro l’angolo,
la possibilità di arrecar danno è sempre presente.
In sintesi, dobbiamo aver fame delle cose dolci e non di quelle amare.