Il 21 gennaio è stato il 98esimo anniversario della fondazione del Partito Comunista Italiano. In quella data, nel 1921, a Livorno, nacque il Partito Comunista d’Italia (PCd’I), a seguito separazione dell’ala di sinistra del Partito Socialista Italiano guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci al XVII congresso socialista. Nel 1943, assunse il nome di Partito Comunista Italiano. Sarà il partito comunista più forte tra i suoi omologhi nell’Europa occidentale.
Terminata l’esperienza della lotta al fascismo, che vide il PCdI e il suo segretario Palmiro Togliatti, attuare una politica di collaborazione con le forze democratiche cattoliche, liberali e socialiste, i comunisti ebbero un importante ruolo nella creazione delle istituzioni della neonata Repubblica Italiana, salvo poi, nel ’47, passare all’opposizione, dopo la decisione di Alcide De Gasperi di estromettere le sinistre dal governo per collocare l’Italia nel blocco internazionale filo-statunitense. Il Partito Comunista rimase, dunque, fedele alle direttive politiche generali dell’Unione Sovietica fino agli anni ‘70 e ’80, pur sviluppando negli anni una politica sempre più autonoma e di piena accettazione della democrazia, già a partire dalla fine della segreteria Togliatti e soprattutto con Enrico Berlinguer, che promosse il compromesso storico con la Democrazia Cristiana (poi naufragato con l’omicidio Moro) e la collaborazione tra i partiti comunisti occidentali con il cosiddetto eurocomunismo.
A Bitonto la sede storica è stata la “Pescara”. L’edificio al numero 21 di Corso Vittorio Emanuele, così chiamato per l’esistenza di un antico pozzo, nel ventennio ospitava la sede del Partito Nazionale Fascista. Il Pci ha avuto un solo sindaco nominato nelle sue fila, se pur per due volte. Fu Arcangelo Pastoressa, dal ’44 al ’47 e dal ’52 al ’53.
Nella cultura socialista e comunista il partito politico ha avuto, sin dalla sua nascita come strumento di lotta per l’emancipazione delle classi subalterne, un ruolo molto importante. In esso Gramsci vi vide la forma di organizzazione più elevata, un intellettuale collettivo che mira a diventare egli stesso Stato, modellandolo a sua immagine e somiglianza.
Nella concezione marxista, in attesa della presa violenta dello Stato, i partiti sarebbero dovuti essere una sorta di «cavallo di Troia nella cittadella borghese», secondo la definizione data dallo storico Paolo Spriano, nella sua Storia del Partito Comunista Italiano. Dovevano infiltrarsi nelle istituzioni democratiche occidentali per poi prenderne il sopravvento. Concezione alla base dell’accusa di doppiezza rivolta al Partito Comunista, all’indomani della Liberazione. Ma in Italia, reduce da una guerra civile, con equilibri politici e sociali fragili, l’orientamento adottato fu verso un “partito nuovo”, apripista ad una via italiana al socialismo che vedesse depotenziate le radici leniniste a favore una trasformazione democratica del paese, pur restando indiscussa la fedeltà all’Unione Sovietica.
Per spiegare questo senso di adesione e appartenenza all’Unione Sovietica, raccontiamo un aneddoto rivelatoci da Giuseppe Rossiello, storico esponente del Partito Comunista.
Anno 1984. Un gruppo di compagni guardava in televisione una partita di calcio, ma non una partita normale. La Rai riproponeva una partita di calcio del 10 novembre 1963, il match di ritorno tra Italia e Unione Sovietica, per la qualificazione agli Europei del 1964. All’andata, giocata a Mosca, la nazionale azzurra aveva perso 2-0 e anche stavolta i russi erano in vantaggio. Ma al 60esimo minuto l’Italia ottenne un calcio di rigore. Per tirare quel calcio, che avrebbe potuto cambiare il risultato a favore dell’Italia, venne scelto Sandro Mazzola. Tuttavia, le speranze degli azzurri si bloccarono nelle mani di Lev Ivanovi? Jašin, il portiere della nazionale sovietica che, per quel miracolo, vinse, il mese successivo, il Pallone d’Oro.
Quella parata fu per gli azzurri una grave sconfitta, che impedì la qualificazione ai campionati europei. Ma quei vecchi compagni, che avevano vissuto l’epoca d’oro dei grandi partiti di massa quale era il Pci, non erano dispiaciuti. Anzi, tutt’altro. Quando le mani del “Ragno Nero” fermarono la traiettoria della palla di Mazzola, un grido d’entusiasmo si liberò nell’aria, nonostante fossero passati oltre venti anni dalla partita trasmessa. Si alzarono in piedi e applaudirono con forza. Erano italiani, ma il loro tifo era per l’Urss.
«C’erano compagni in piedi a battere le mani per Jašin – ricorda Rossiello – Mi chiesi dove fossi capitato. Io tifavo Italia. Ero già di un’altra generazione di comunisti».
Un aneddoto che spiega come fosse forte il sentimento politico che albergava nella gran parte dei militanti, tale da influenzare ogni aspetto della vita umana, comprese passioni che con la politica ben poco hanno a che fare, come il tifo per una nazionale di calcio.
La militanza, il senso di appartenenza, infatti, non si esaurivano nelle sedi partitiche e nei momenti elettorali. Permeavano qualsiasi aspetto della vita degli iscritti, come in una sorta di “partito-chiesa”, come furono definiti i partiti comunisti. C’erano luoghi di ritrovo specifici, come case del popolo, associazioni e circoli Arci, una federazione giovanile, un giornale di riferimento, L’Unità, fondato nel ’24 da Gramsci. C’era una vera e propria organizzazione, molto centralizzata, molto più di altri partiti, e diffusa sul territorio nazionale attraverso le tante sezioni locali.
«Nel momento in cui sul territorio cominci a fare politica, ti devi organizzare» afferma Rossiello, ricordando la sua esperienza di vicesindaco: «Prima di assumere una decisione, io uomo forte del partito, dovevo consultare la segreteria, il direttivo, l’assemblea. Qualora avessi avuto un’idea malsana per la testa avrei dovuto superare questo triplice setaccio. La segreteria era il “sancta sanctorum”, il punto vero di partenza. Se la segreteria decideva, si andava in direttivo e poi in assemblea. Se qualche volta l’idea non passava in direttivo e in assemblea, il segretario si doveva porre il problema delle dimissioni. C’era, quindi, una partecipazione dal basso. E tutto ciò aveva anche una funzione di controllo che giovava molto all’etica della politica, all’agire morale nelle scelte decisionali. C’era un meccanismo vero di maggioranza e minoranza e c’era un controllo partitico anche in consiglio comunale. I compagni venivano in consiglio a controllare che il mandato venisse rispettato da parte di chi si trovava a rappresentare il partito a Palazzo Gentile».
«Si faceva vera opposizione – aggiunge – Io vengo da un partito di opposizione e l’opposizione garantisce l’interesse pubblico, la democrazia».
Organizzarsi significa anche avere piano economico che consenta di fare politica, di coprire i costi legati all’attività politica. Anche per questo, oltre che per discutere insieme alla cittadinanza e per attirare altri iscritti, il Pci ogni anno organizzava la Festa dell’Unità.
«La comunicazione avveniva con i comizi e con il tam tam dei compagni per le strade e casa per casa. All’assemblee del partito non partecipavano mai meno di 60 o 70 persone che, puntualmente, dal giorno dopo diffondevano all’esterno quanto discusso in assemblea. Anche il sindacato era una camera di risonanza. In tv non si andava facilmente. C’erano le famose tribune politiche, dove i leader di partito parlavano con un linguaggio di forte impatto comunicativo per farsi comprendere da tutti gli ascoltatori» ricorda l’ex parlamentare.
«Le campagne elettorali partivano da un’elaborazione all’interno del partito. Il programma elettorale era una sorta di vademecum per chi andava a governare. Veniva discusso non prima delle campagne, ma attraverso commissioni, con uno spirito di partecipazione determinato dalla lettura del senso generale del bene comune» aggiunge il professore evidenziando come il partito fosse anche un luogo dove ci si preparava ad essere classe dirigente: «La preparazione era fondamentale. Prima di arrivare a ricoprire incarichi era necessario un cursus honorum. Non si diventava segretario dalla mattina alla sera. L’incarico del segretario era un punto di arrivo di un percorso in cui si veniva guidati dal partito o dall’organizzazione del partito. Io, per i primi anni della segreteria, ero guidato e controllato dalla federazione di Bari. Venivano qui quasi quotidianamente. I miei maestri in consiglio comunale sono stati l’avvocato Pasquale Marinelli, il contadino Arcangelo Muschitiello, il pensionato Fedele Catucci e non ultimo l’operaio Peppino Lisi. Facevano scuola e si imparava tanto. I circoli locali si interfacciavano con gli altri. Si andava agli incontri politici con un quadernetto per prendere appunti. Adesso tutti ritengono di sapere tutto e non c’è più un luogo dove si forma una classe dirigente».
Il Partito Comunista Italiano si sciolse nel ’91, a meno di due anni dalla caduta del Muro di Berlino e a pochi mesi dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, che per 70 anni era stata il punto di riferimento verso cui guardare. Prima ancora che le indagini di Tangentopoli ponessero fine agli altri partiti della Prima Repubblica. Indagini che non sfiorarono, se non molto marginalmente, i comunisti.
Ancor prima della caduta del Muro di Berlino c’era stato chi aveva intravisto quel che sarebbe successo, rivela Rossiello, ricordando quando, negli anni ’80 nel periodo in cui la DC dominava, Giuseppe Vacca, politico e storico del Pci, durante una cena, prefigurò che, così come sarebbe scomparso lo scudo crociato, sarebbero scomparsi anche falce e martello: «Scatenò le ire di molti e fu una cena avvelenata. La scomparsa dello scudo crociato lasciava o imperturbabili o contenti. Ma l’idea che potesse finire il Partito Comunista era per noi fonte di angoscia».
Del resto, la fine del partito non poteva non essere indolore per chi, in quella causa ci aveva creduto.
«Ricordo le lacrime che si versarono nella sezione quando, il 26 dicembre 1991, fu ammainata la bandiera dell’Urss sul Cremlino. Ho visto i compagni piangere, perché era la fine di un sogno, di un’idea in cui avevano creduto per una vita intera» conclude Rossiello.