«Una cosa nella vita l’ho imparata: che niente è uguale. Non è uguale studiare o non studiare, rubare o non rubare, delinquere o non delinquere. E anche se uno è partito indietro come me, non è scritto da nessuna parte che debba arrivare ultimo».
È molto più di un racconto autobiografico quello che Alì Ehsani fa in “I ragazzi hanno grandi sogni” il libro presentato sabato scorso, in uno degli appuntamenti della rassegna “Memento”, organizzata ogni anno per ricordare le vittime dell’Olocausto e di tutte le tragedie della storia. Non solo quelle del ‘900, ma anche quelle attuali, perché non serve a nulla ricordare quel che è avvenuto nel secolo scorso, se poi si è insensibili verso le ingiustizie odierne.
Alì è un cittadino afghano, di etnia turkmena e dai tratti asiatici, spesso scambiato per cinese. Era un bambino quando, nel suo paese natìo devastato dalla guerra, vide la sua casa distrutta da un missile. Sotto le macerie giacevano i corpi senza vita dei genitori. Quei genitori di cui a malapena Alì riesce a ricordare il volto, ma sempre presenti attraverso i loro insegnamenti.
Da quel momento inizia per lui e suo fratello un viaggio dall’Afghanistan all’Italia. Un viaggio, raccontato già in un primo libro dal titolo “Stanotte guardiamo le stelle”, in cui si ritrova da solo, dopo il naufragio in cui muore il fratello maggiore, nel tentativo di raggiungere la Grecia dalla Turchia. «Non so neanche dove è sepolto» rivela oggi. Si ritrova da solo con tanti disperati come lui in cerca di maggior fortuna, di una vita migliore, lontano dalla guerra, dalla povertà, dalla paura. Il suo sogno è l’Italia, ma altri sognano la Germania, la Svezia e altri paesi europei. Lui è uno di quelli che etichettiamo come clandestini, che vediamo solo come numeri, dimenticando che, prima di tutto, sono persone.
Ha 13 anni quando riesce finalmente a raggiungere prima Venezia e poi Roma, attraverso un lungo ed estenuante viaggio nascosto in un tir, per evitare di essere scoperto alle varie frontiere che deve attraversare. E di lì inizia un altro periodo duro, in cui deve affrontare le difficoltà derivanti dall’essere un ragazzino in un paese straniero, con una lingua incomprensibile, talvolta guardato con sospetto, senza soldi e, inizialmente, senza un tetto dove dormire.
Reduce dagli insegnamenti del padre che, in vita, gli aveva sempre ripetuto che per essere liberi bisogna studiare e che è molto importante fare del bene, si impegna nello studio. Cerca in ogni modo di guadagnarsi da vivere con vari lavori, rifiutando le proposte di chi, tra i suoi compagni, preso dalla voglia di guadagno facile o dalla preoccupazione di dover mantenere le famiglie nei paesi di provenienza, si lascia abbindolare dai richiami della criminalità organizzata. Ogni volta che una minima tentazione si manifestava nella sua testa, vedendo i suoi amici su un motorico o con delle scarpe belle ai piedi, arrivava il padre a riportarlo sulla retta via e a ricordargli che, facendo del bene alle altre persone, prima o poi si verrà ricompensati, che prima o poi quel bene ritorna indietro.
Quella di Alì in Italia non è affatto una pacchia, termine caro al qualunquismo oggi imperante. È una lotta difficile che vede tanti suoi amici fallire e che più volte mette lui a dura prova. Deve imparare a difendersi dal bullo del centro di accoglienza, deve impegnarsi nel nascondere i suoi trascorsi, per non spaventare gli amici e non essere allontanato e ritrovarsi solo. Deve abituarsi a perdere amici. Deve anche affrontare raggiri e sconfiggere la paura di non farcela. Quella paura che, spesso, è inculcata anche dagli altri e, come una profezia che si autoavvera, spinge al fallimento molti dei suoi amici, convinti di non avere alcuna possibilità di realizzarsi. Fallimento che rischia di portare su vie sbagliate.
Oggi Alì è maggiorenne e vive stabilmente in Italia. Dopo anni di studio e di lavoro ce l’ha fatta a trovare il suo posto nella società. È docente. Si considera italiano come spesso sottolinea, manifestando riconoscenza verso il paese che l’ha accolto e che gli ha permesso anche di riscoprire quella spiritualità che, da bambino, era costretto a nascondere per evitare l’arresto (la famiglia era cristiana, nel tempo dei talebani), ma non dimentica mai le sue origini e aiuta come può chi ha vissuto o vive la sua situazione. E, a Bitonto, ha ricordato la sua storia, che, poi, è la storia di tanti come lui. Tanti, uomini, donne, bambini, spesso invisibili, non considerati, disprezzati.