C’è qualcosa di disarmante nella semplicità con cui Richard Bach, nel 1970, affida a un gabbiano il compito di raccontare la condizione umana. “Il gabbiano Jonathan Livingston” è un libricino che rappresenta una parabola sulla libertà: è una riflessione sull’individuo che rifiuta di vivere in un orizzonte imposto e sull’urgenza di trascendere i confini del consueto, per inseguire la propria idea di perfezione.
Jonathan è un gabbiano singolare. Mentre gli altri volano solo per procurarsi il cibo, egli cerca nel volo un senso più alto: non l’utile, ma il bello; non la sopravvivenza, ma la conoscenza. È il simbolo di chi sceglie la via più ardua: quella dell’autenticità. Qual è il prezzo che dovrà pagare per restare fedele a sé stesso? L’emarginazione dallo stormo. Che, oltre ad essere la sua “condanna”, è anche la sua iniziazione: l’apprendistato necessario per comprendere che la libertà si conquista, non si eredita.
Nel curioso gabbiano Jonathan si intravedono echi di Icaro, ma anche dell’uomo nietzschiano che tenta, con ostinazione, di superare sé stesso. «Solo chi vuole s’infinita», scriveva Montale, e l’anelito di Jonathan verso un cielo sempre più ampio coincide con quel desiderio inesausto di superamento che definisce ogni autentico percorso umano.
Bach, con prosa limpida e quasi ascetica, suggerisce che la perfezione non è un punto d’arrivo, bensì un esercizio quotidiano di disciplina e consapevolezza. Il volo di Jonathan è dunque un gesto etico prima che estetico. Non è un capriccio artistico, ma un atto di coerenza interiore: è il rifiuto della mediocrità, dell’adattamento passivo, del conformismo che impoverisce lo spirito.
A oltre mezzo secolo dalla sua pubblicazione, “Il gabbiano Jonathan Livingston” conserva intatta la sua forza simbolica. In un’epoca che celebra la velocità e teme la solitudine, il piccolo gabbiano ci invita a riscoprire la lentezza dell’apprendimento, l’importanza dell’errore, la nobiltà del tentativo incessante ed inesausto. Come scriveva Emily Dickinson, «l’anima ha più cieli di quanti ne possa volare un uccello», e forse è proprio questa la lezione più profonda del romanzo: ricordarci che i nostri limiti non sono barriere, ma soglie.
E così Jonathan Livingston assume il volto di una metafora duratura: di quelle che attraversano il tempo e continuano a parlare, con voce ferma e lieve, a chi osa guardare più in alto, insegnando che la vera libertà non è sfidare il vento, ma imparare a danzare con esso. Perché solo chi accetta di staccarsi dallo stormo può scoprire quanto il cielo, in realtà, sia infinito. Buona lettura!












