E’ il tormentone delle nostre domeniche pallonare, l’uno contro uno che ci tiene incollati al video, una sfida in apparenza impari che avvantaggia in teoria chi lo calcia, ma che in realtà si gioca sul filo del rasoio, la tecnica non basta perché il più delle volte è sovrastata dalla personalità, dalle emozioni, financo dai riti propiziatori che ciascuno degli attori in campo attua prima del fischio dell’arbitro: c’è il portiere che ciondola davanti alla porta, ancheggia, fa il gesto di issarsi sulla traversa; c’è il giocatore che sistema nervosamente la palla sul dischetto, se la bacia, poi torna, la sposta, non c’è un attimo di pausa fino al fatidico fischio.
L’ideazione del calcio di rigore – letteralmente definito dal Premio Nobel per la letteratura Camilo Josè Cela pena di morte del calcio – è attribuita al portiere nord-irlandese William McCrum che lo istituì ufficiosamente intorno al 1890. McCrum decise di applicare la nuova regola del tiro libero dalla distanza di 10,89 metri con l’intento di condizionare l’irruenza dei suoi stessi compagni che affrontavano con troppa vigorìa gli avversari che si approssimavano alla porta da lui difesa.
Tutti non vedono l’ora di vedersi assegnato un calcio di rigore: giocatori, supporters, staff societario, già….Ma una volta che l’arbitro fischia ed indica il dischetto, è caccia a chi lo tira, il rigorista ufficiale (quello più bravo in allenamento, il più tecnico) è sovente scalzato da chi si fa avanti per prima, indomito, concentrato, pronto ad accollarsi ogni responsabilità, perché se tiri bene vince la squadra, se sbagli perdi solo tu che hai osato calciare…Capita pure, paradossalmente, che a calciare un rigore ci si faccia male e si debba uscire dal campo, come di recente accaduto al top player De Bruyne nel match Napoli-Inter, stessa sorte per Dybala in Milan Roma di domenica scorsa.
E’ famosissima la frase di Jean-Paul Sartre: “Il calcio è la metafora della vita”, come anche quella di Papa Francesco per il quale “il calcio è l’immagine della vita e della società ed il portiere deve bloccare la palla là dove viene calciata, non sa da dove arriverà. E la vita è così”
Come non essere d’accordo? Il calcio di rigore, poi, quale momento topico di una partita, è una metafora nella metafora: sbagliare un calcio di rigore è mancare l’occasione della vita, condannarsi alla sconfitta, non hai attenuanti, non sei stato concentrato, hai avuto paura, l’emotività ha prevalso sulla tecnica, resti solo sul dischetto a fissare un pallone schizzato chissà dove; di segno opposto il destino di chi te l’ha parato, osannato da tutti, elevato al rango di eroe di giornata, sommerso dagli abbracci.
Ma c’è anche chi quel rigore lo segna e lo fa in maniera irriverente, spettacolare, prendendosi beffa del portiere: è la storia di uno dei gesti più iconici e beffardi del calcio, il rigore a scavetto di Francesco Totti, noto anche come cucchiaio, una sorta di pallonetto che, quando eseguito correttamente, fa in modo che il pallone scavalchi l’avversario. Eseguito contro il portiere olandese Edwin van der Sar in Euro 2000, è diventato uno dei momenti più iconici e coraggiosi nella storia del calcio italiano. Quel cucchiaio non è solo un tocco raffinato. E’ il “calcio di poesia”, secondo la nota definizione di Pasolini, quello dell’improvvisazione, della genialità improvvisa, della bellezza istintiva. E’ il calcio che sfida le convenzioni, come un colpo di pennello inatteso su una tela bianca. Totti non calcia semplicemente un rigore, non si limita a fare il “compitino”, non sarebbe stato lui. E proprio lì, in quel rischio, si nasconde la forza del gesto. Se avesse sbagliato, sarebbe stato crocifisso. Ma ha segnato. E ha lasciato un’impronta. Quante volte, nella vita, ci viene chiesto di essere diversi da ciò che siamo? Di scegliere ciò che funziona, non ciò che ci rappresenta? E quante volte ci pieghiamo, solo per paura? Il cucchiaio di Totti è il contrario. È il gesto di chi conosce il proprio valore e decide di esprimerlo, anche quando il mondo ti guarda.
