C’è un momento in cui la letteratura si fa carne, sangue, respiro. “Il cielo di mia madre” di Lara Carbonara è questo: un libro che non recita, non simula, non si traveste da romanzo. È un atto d’amore scritto con la gola in fiamme. Non c’è artificio, c’è solo il bisogno — urgenza vitale — di lasciare segni prima che il tempo li cancelli. Il tempo della madre, che si spezza senza preavviso, e il tempo della figlia, che da quel momento si inceppa, si frantuma, si ricompone a fatica tra le schegge della mancanza. Lara Carbonara racconta la morte della madre senza cronaca, senza compiacimento, senza piangere troppo forte. Lo fa con una lingua scarna e tenera, appuntita e fragile, una lingua che sembra fatta per custodire il vuoto, per dargli un nome e un corpo. Le frasi si susseguono come pensieri a voce alta, ma limati fino all’osso: «Il dolore all’inizio è preciso. Sa dove colpire, dove stare, dove accumularsi». Il dolore è lo scenario, la madre il paesaggio, il cielo l’unico spazio in cui cercare ancora la sua ombra. Non c’è una narrazione lineare, ma un fluire. Come accade con le lacrime, con i ricordi, con il lutto che ti salta addosso quando meno te l’aspetti, nel buio di una cucina o nella luce accecante di una mattina qualsiasi. Lara non costruisce, non incastona: restituisce. E ciò che restituisce è l’infanzia che ritorna in forme minute — mani che accarezzano, capelli intrecciati, odori di cucina e di pioggia —, la malattia che strappa centimetro per centimetro la pelle del presente, la rabbia che non ha bersagli e che pure brucia, la colpa che sfiora ogni gesto, ogni omissione. E poi, lentamente, il passaggio. Non verso la rimozione — mai —, ma verso una diversa forma di presenza. «Forse mia madre non se n’è mai andata, ha solo cambiato forma». Così, tra le pieghe di un viaggio fisico e simbolico, in un altrove che assomiglia alla Norvegia e ai suoi silenzi immensi, Lara ricompone i frammenti di sé, guarda i figli e si chiede se il suo amore saprà reggere alla prova del tempo. La scrittura diventa la sola ancora possibile. Un diario in cui l’intimo si fa universale, in cui ogni lettrice — ogni figlia — può trovare le proprie crepe, le proprie nostalgie, le proprie omissioni. Tra il pudore di queste pagine, la commozione, c’è la certezza che «non si smette mai davvero di essere figlia», anche quando non c’è più una madre a ricordartelo. Il libro è attraversato da una bellezza ostinata, che si scopre nella riga storta di una fotografia, nell’ombra di un gesto quotidiano, in una tazza lasciata nel posto sbagliato. E tutto il racconto si regge su una metafora, struttura portante del sentimento: il cielo. Quel cielo che osserva e accoglie, che custodisce le cose che abbiamo amato e che ci sono state tolte. Quel cielo che cambia colore ma resta, anche quando la terra sotto i piedi si sbriciola. Il cielo di mia madre è un piccolo libro prezioso, uno di quelli che non fanno rumore ma che ti si infilano sotto la pelle e ci restano. Perché il lutto, a volte, ha bisogno solo di parole giuste e ricordi, che si inanellano come perle preziose. E Lara Carbonara le trova tutte, con misura, con grazia, con dolore. Scrive come si respira dopo un lungo pianto: piano, a piccoli sorsi, imparando di nuovo a stare al mondo.
Il cielo di mia madre sarà presentato a Bitonto il prossimo 23 luglio, alla presenza dell’autrice, presso la libreria Hamelin.
Lara Carbonara è Dottore di Ricerca in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni. Laureata in Scienze della Comunicazione e Filologia Moderna, ha collaborato con diverse riviste cartacee e online. Vincitrice del primo premio letterario Lo sguardo dell’Aquila 2018 – Scrittori di Montagna e del Concorso Letterario Scrivendo – Kubera Edizioni 2020, attualmente collabora con la casa editrice Articoli Liberi, insegna discipline umanistiche, colleziona parole. Da piccola sognava di diventare scrittrice. Continua a sognarlo.