Con “Nelle viscere del passato“, siamo di fronte a un’opera intensa e visionaria firmata da Michele Pastoressa, autore bitontino che sceglie la sua, nostra città natale come centro narrativo e simbolico del racconto. Si tratta di un romanzo che attraversa un paesaggio interiore radicato nella cultura del Sud, descritto con uno sguardo affilato, affettuoso e lucido.
Bitonto emerge come personaggio vivo, luogo che accoglie, nasconde, scruta, giudica. Il protagonista, Walter, restauratore d’arte, torna in città per occuparsi del pavimento musivo della cattedrale. Il suo è un ritorno che lo mette di fronte a ciò che ha lasciato e a ciò che lo abita: il lavoro si intreccia subito a qualcosa di più profondo, personale, disturbante.
Walter è una figura intensa, a tratti magnetica. La sua compostezza estetica e professionale si accompagna a una tensione interna che emerge gradualmente. Uomo colto, attento all’armonia e alla forma, vive una fragilità che si insinua nei sogni, nei gesti, nei silenzi. Sotto l’apparente controllo, qualcosa cede. E proprio lì nasce il cuore inquieto del libro.
La narrazione è pervasa da un’atmosfera sospesa e perturbante. Visioni, incubi e dettagli simbolici si intrecciano con la quotidianità fino a confondersi con essa. Le grandinate estive, i girini che escono dal ghiaccio, la donna dai capelli rossi, la Madonna con le corna, la fattucchiera che vive in un sottoscala: tutto contribuisce a creare un senso di disorientamento sottile e crescente.
Ogni elemento non cerca di spiegarsi ma esiste come traccia, come segnale di un mondo altro che scorre sotto la superficie visibile. Il male attraversa la narrazione in modo capillare. Si annida nei luoghi, nei simboli, nelle parole sussurrate, nei riti arcaici, nella fede che si deforma e convive con la stregoneria. È un male quotidiano, radicato, che non ha bisogno di mostri appariscenti. L’ordinario si fa minaccioso senza dichiararlo apertamente. E in questo paesaggio Walter si muove con lo sguardo di chi cerca di comprendere ma finisce per smarrirsi.
Lo stile di Pastoressa è raffinato, colto, attento alla costruzione dell’immagine e del ritmo. La lingua, pur ricca, non risulta mai forzata. L’alternanza tra registri più alti e incursioni nel parlato conferisce alla scrittura profondità e aderenza. I dettagli architettonici, le note d’arte, le riflessioni sull’identità culturale si intrecciano con fluidità, contribuendo a creare un romanzo denso e ben calibrato.
“Nelle viscere del passato” è, allora, un viaggio narrativo che porta il lettore tra soglia e sogno, tra corpo e memoria, tra pietra e inquietudine. Ogni pagina scava, suggerisce, mette in moto sensazioni. Si cammina in un dedalo di simboli, voci, presenze ambigue, tra sacro e superstizione, tra ciò che torna e ciò che non si riesce a lasciar andare.
E una volta chiuso il libro, resta addosso quella sottile sensazione di aver toccato qualcosa di vero, per quanto deformato, e di essersi sporcati un po’ le mani. Ma va bene così. Perché è proprio questo che certi romanzi sanno fare: lasciare qualche ombra in più ma anche il gusto raro di un’esperienza che ha davvero inciso.
Marino Pagano