di Angelo Palmieri
In alcune stagioni della vita pubblica, specie per chi ha attraversato una fase di piena esposizione mediatica, il tempo che segue può assumere i tratti di una nostalgia sfumata, non sempre ben decifrata.
Non vi è nulla di sconveniente, in fondo, nel perseverare nella cura delle proprie passioni e convinzioni. Ma è nel modo in cui si coltivano queste idee che si misura la maturità del proprio impegno civico, e forse anche quella personale.
Alcuni interventi recenti, apparsi a margine del dibattito cittadino, sembrano più animati da una tensione autobiografica, quella che Remo Bodei definirebbe “io mongolfiera”, sospinto verso l’alto da un desiderio narcisistico di affermazione, che da una reale volontà di contribuire, in modo onesto e critico, alla vita civica.
Si fa riferimento al lavoro, all’impegno, alla militanza per le “visioni in cui si crede”, ma si avverte, dietro le righe, una latente sindrome del palcoscenico: un bisogno costante di riaffermare la propria centralità, anche quando quel ruolo, oggi, non c’è più.
La politica, lo si sa, è fatta anche di simboli. Ma quando tutto diventa simbolico, si rischia di smarrire la concretezza. È facile evocare l’etica, il bene comune, la lotta al malaffare. Più difficile è farlo con rigore, lontano dagli slogan, senza indulgere in posture da moralizzatori seriali o da eterni redentori del sistema.
La denuncia, quando si limita a una professione di fede e non si nutre di profondità analitica e responsabilità relazionale, finisce per essere nulla più che vanità travestita da virtù.
Ed è proprio qui che si apre una riflessione più ampia: su come il narcisismo politico, sottile, pervasivo, talvolta travestito da impegno civile, possa diventare una forma di potere distruttivo, capace di compromettere lo spazio del confronto democratico, ma anche la possibilità di costruire alleanze vere, solide, disinteressate.
Si è detto che “non si governa”, ma si è sempre pronti a parlare, a consigliare, a suggerire, a intervenire. In nome di cosa? Della città? Dell’esperienza accumulata? O forse di quella persistente difficoltà a fare un passo di lato, senza trasformarlo in una parabola messianica?
Quanto poi alle ambizioni politiche di qualche ex amministratore e alle operazioni che si vorrebbero collettive, viene spontaneo chiedersi se esista davvero un impianto progettuale solido o se ci si trovi ancora una volta di fronte a un affaire a geometria variabile, pensato più per il riverbero mediatico che per la coerenza di visione. Quando si evocano “tessuti sociali”, “nuove generazioni di futuro possibile”, non sarebbe forse utile, e doveroso, chiarire quali pratiche siano effettivamente in atto, quali territori attraversati, quali interlocuzioni reali siano oggi in cammino?
Altrimenti, il sospetto che la dimensione istituzionale si sia ridotta a capriccio intermittente o a messa in scena, piuttosto che a esercizio di responsabilità condivisa, rischia di diventare certezza.
E se torniamo con lo sguardo al nostro contesto urbano, il quadro è complesso e merita uno sguardo profondo. Si può e si deve discutere delle criticità amministrative, della contrazione delle risorse, della faticosa azione educativa in contesti fragili. Ma non si può, con leggerezza, ridurre tutto a etichette mediaticamente seducenti, come “baby gang” o “disimpegno istituzionale”.
La microcriminalità, quella che infastidisce, spaventa, degrada il tessuto urbano, va contrastata con decisione, senza indulgenze né alibi. Serve fermezza, presenza, pensiero lungo. Ma è cosa ben diversa dal costruire una semantica della paura attraverso modelli narrativi come quello delle “baby gang”, che rischia di trasformare episodi scollegati in uno scenario apocalittico e uniforme.
C’è una differenza, netta e non eludibile, tra fenomeni di devianza adolescenziale e strutture criminali radicate: non confonderle è essenziale, per non alimentare da un lato la rassegnazione, e dall’altro la propaganda.
Va però colta, in questa fase storica, anche una dinamica più profonda, che la sociologia conosce bene: il sindaco, in quanto primo cittadino, diventa spesso il corpo simbolico su cui si proiettano ansie collettive, frustrazioni, aspettative deluse. Un processo di transfert sociale molto comune, in cui il capo dell’amministrazione incarna, nel bene e nel male, l’intero destino della città.
Ma attenzione: la democrazia non è una delega in bianco né un bersaglio mobile. Se si chiede al sindaco di “fare tutto”, senza costruire dal basso forme di partecipazione, corresponsabilità, spinta civica, si finisce per alimentare una narrazione distorta e autoassolutoria.
Allo stesso modo, occorrerebbe interrogarsi, seriamente, su come funzioni oggi l’Ufficio di Piano, su quanto sia in grado di sviluppare progettualità, intercettare risorse, disporre di competenze effettivamente adeguate alle sfide in corso, e articolare risposte capaci di corrispondere a una complessità che si fa ogni giorno più stratificata.
Perché, al di là dei titoli formali e delle intenzioni, ciò che conta è la capacità di visione, la qualità tecnica, una cultura della progettazione integrata.
Su questi temi serve meno teatrino e più analisi rigorosa, meno sorveglianti dell’arena e più artigiani della fiducia.
Il tempo che stiamo vivendo ha bisogno di misura, non di palinsesti personali, di esercizi collettivi, non di soliloqui. Come ci ricorda Erving Goffman, tutti recitiamo un ruolo.
Ma c’è differenza tra chi lo fa per entrare in relazione con il mondo e chi, invece, resta prigioniero del proprio copione, incapace di concepire il bene pubblico al di là del proprio riflesso.
Non serve più chi parla “a Bitonto”. Serve chi agisce per Bitonto. E con Bitonto.
È tempo che la politica, anche a livello locale, ritorni ad essere infrastruttura culturale, prima ancora che amministrativa. Che si misuri non solo con le opere pubbliche, ma con l’opera più fragile e necessaria: quella della coesione sociale.
Non servono narrazioni salvifiche né disegni retorici. Serve un progetto collettivo che non confonda la nostalgia con la prospettiva, né il rumore con la profondità.
Solo così, forse, torneremo a credere nella cosa pubblica non come palco, ma come spazio comune di reale trasformazione.