di Angelo Palmieri
Non è più la “polvere dei ricchi”, né un vizio nascosto nei salotti buoni. La cocaina oggi corre per le stesse strade dove giocano i ragazzi, arriva nelle case, si insinua nei bar, nei garage, nelle piazze dove la notte si adagia lenta. A Bitonto, il consumo di cocaina e di nuove sostanze sintetiche è ormai un fenomeno trasversale: colpisce studenti e disoccupati, professionisti, artigiani e impiegati, madri e padri di famiglia. Nessuna distinzione di classe, nessun margine di immunità.
La nuova frontiera passa per il dark web. Da lì partono ordini che si muovono in modo invisibile, attraverso criptovalute e consegne anonime. Si comprano pasticche, polveri, spray, psichedelici di ultima generazione. Le nuove droghe arrivano in pacchetti sigillati come prodotti qualunque, ma portano con sé un rischio pernicioso: dosaggi imprevedibili, combinazioni chimiche instabili, effetti devastanti sul sistema nervoso. Una parte dei giovani che si avvicinano a queste sostanze non sa nemmeno cosa stia assumendo.
Il contesto locale conosce da vicino il lato oscuro di queste dinamiche. Le cronache raccontano di operazioni antidroga, di quartieri sotto pressione, di arresti che sembrano però non scalfire la radice della ferita. Ogni volta che una rete viene smantellata, un’altra si riorganizza. È un sistema fluido, che si adatta, che cambia forma. E intanto il consumo cresce, nascosto dietro una normalità apparente.
Il punto è che la repressione, da sola, non basta. Colpire i consumatori senza comprenderne le cause non è una soluzione: è solo un modo per non vedere. Dietro ogni dipendenza c’è un vuoto simbolico pauroso, una solitudine, una promessa spezzata. C’è un’intera generazione che cerca nel “viaggio” chimico un’alternativa alla fatica di vivere, alla precarietà, all’assenza di prospettive.
Eppure, anche in questo territorio complesso, ci sono segni di resistenza. Alcune scuole aprono spazi di prevenzione, parrocchie accolgono, centri educativi — pochi, ma preziosi — ascoltano, cooperative sociali si fanno baluardi civili. È in questi luoghi che si costruisce la risposta più autentica: il tessuto sociale come antidoto alla schiavitù chimica.
Serve una strategia nuova, che unisca repressione e prevenzione, controllo e accompagnamento. Servono politiche pubbliche capaci di andare oltre l’emergenza, di investire nei legami, nelle famiglie, negli spazi sociali. Perché la droga, oggi, non si combatte solo nei laboratori di analisi o nei tribunali, ma nelle strade, nelle relazioni, nei luoghi dove la vita quotidiana si gioca davvero.
È un segnale importante che anche qui si torni a parlare di educativa di strada, anche se questo modello d’intervento sta scomparendo in molte città, spesso per limiti metodologici o per un approccio superficiale al problema. Eppure, questo approccio di prossimità resta uno strumento prezioso, purché fondato su una formazione rigorosa e specialistica degli operatori. Non ci si improvvisa “educatori di frontiera”. La mia esperienza mi insegna che un operatore non adeguatamente preparato rischia di bruciarsi, di compromettere la fiducia del territorio e di ridurre l’efficacia del lavoro. Servono mesi di sola osservazione dei contesti, taccuino e penna alla mano, per leggere comportamenti, dinamiche, silenzi. Nulla può essere improvvisato. Non riduciamo il modello a banchetti che distribuiscono materiale informativo.
In questa città — come altrove — la questione non riguarda soltanto chi spaccia o chi consuma, ma chi resta indifferente. La vera rivoluzione arriverà quando il corpo civile si riconoscerà parte del problema e della soluzione, smettendo di giudicare e cominciando, finalmente, a prendersi cura.















